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I «tanti ii» evocati da Edoardo Sanguineti tornano alla mente accingendosi a qualche nota sull’edizione 2021 di Terreni Creativi, il Festival che Kronoteatro realizza coraggiosamente ad Albenga, in provincia di Savona che quest’anno è stato inspiegabilmente (o forse fin troppo “spiegabilmente”, ahinoi) vessato dal mancato riconoscimento del contributo ministeriale nonostante la più che meritoria e capillare azione culturale che la Compagnia guidata da Maurizio Sguotti svolge sul territorio (et ultra) ormai da molti anni.
Un sé osteso, posto a motore del fatto artistico (ancorché declinato nelle più diverse forme), pare accomunare molte delle proposizioni in programma nell’edizione 2021 del Festival: un fil rouge che decidiamo di evidenziare perché ci pare significante di una tendenza in atto nel proteiforme universo delle arti performative contemporanee, che è ciò di cui il Festival si occupa.
Sia chiaro: nulla di nuovo.
Da sempre (o, restringendo il campo, almeno dalle molte rivoluzioni delle Avanguardie, da un secolo a questa parte) l’artista sempre più spesso si (pro)pone come soggetto ma anche oggetto del fatto artistico. Ma in questa fase (post)pandemica, con le molte istanze di visibilità e riconoscimento lungamente frustrate, ci pare che tale attitudine abbia preso nuovo vigore.
Breve raccomandazione, prima di passare a una minima ricognizione dei casi in esame: dal punto di vista di chi scrive tale connotazione “personale” è un dato del tutto neutro.
Parlare di sé invece che delle abitudini alimentari degli abitanti della Papua Nuova Guinea, di storia dell’arte preistorica o di problemi di ingegneria aerospaziale non è in sé un valore né un disvalore: se è vero che la storia delle arti è innanzitutto storia del come, prima che del cosa, non condividiamo l’opinione (invero affatto diffusa) che la partecipazione dell’artista (emotiva o biografica che sia) alla realizzazione dell’opera costituisca in sé motivo di interesse o di valore.
Terminato questo fin troppo lungo preambolo, entriamo seppur brevemente nel merito di alcune proposizioni in programma.
Alessandro Berti: l’io esteso.
All’attore, regista e drammaturgo Alessandro Berti il Festival ha dedicato una delle personali di questa edizione (segno della volontà di approfondire, per quanto possibile, la conoscenza di percorsi artistici liminali e preziosi).
Berti ha presentato gli esiti del suo attuale percorso di ricerca, dal titolo Bugie bianche, che ha per oggetto di indagine performativa il rapporto fra razze (termine da intendere in senso culturale e non biologico, come ricorda lo stesso artista nel primo spettacolo presentato), nello specifico quella bianca e quella nera, sotto diverse angolature.
Un anno e mezzo di studio hanno portato il talentuoso artista a elaborare un materiale che ha dato vista a Black Dick, spettacolo che pone al centro lo sguardo dei bianchi sul corpo (da intendersi come oggetto culturale, non solamente erotico) dei neri.
Non entreremo nel merito di questa creazione (di cui già altrove scrivemmo, un anno fa). Ciò che è utile evidenziare, ai fini del presente discorso, è come il lavoro ponga in evidenza, con una quantità di documentatissimi esempi, che chi domina determina lo sguardo sulle cose e come esso sia condizionato da più o meno consapevoli cliché. Un invito a «guardarsi guardare», per dirla con Marleau-Ponty, a immergersi in una salvifica complessità parsa affatto beneaugurante posta in apertura del Festival.
Terreni Creativi ha, il giorno seguente, proposto anche il secondo capitolo del progetto di Alessandro Berti, Negri senza memoria. Oggetto: l’emigrazione italiana negli Stati Uniti, un secolo fa. Denso come una lezione di storia e reso vivo dagli straordinari talenti dell’artista (che oltre ad aver scritto lo spettacolo lo interpreta in italiano e inglese, canta, suona con grazia la chitarra e si muove con la precisione di un danzatore), lo spettacolo patisce di un almeno apparente auto-compiacimento che rende a tratti stucchevole ciò che lo spettatore riceve.
Il fatto teatrale è di per sé sbilanciato (c’è chi è al buio e chi illuminato, chi per un’ora o più parla e chi per un’ora o più ascolta, chi per essere lì paga e chi è pagato, chi -almeno negli spazi all’italiana- è sopraelevato e chi sta in basso): probabilmente costringersi in una partitura più vincolante (come accade, almeno in apparenza, nel caso di Black Dick) gioverebbe a un’asciuttezza comunicativa funzionale ed auspicabile.
Berti è un’artista che seguiamo da molti anni con rispetto e interesse (memorabile una sua creazione di qualche anno fa dedicata a Meister Eckhart), dispiace che un così esplicito compiacimento di sé e delle proprie indubbiamente straordinarie capacità (almeno apparente, anche secondo diversi colleghi presenti al Festival con cui ci si è potuti brevemente confrontare) indebolisca un progetto altrimenti di indubbio interesse e valore.
Daniele Ninarello: l’io corporeo.
Un’altra personale è stata dedicata da Terreni Creativi 2021 al coreografo e danzatore Daniele Ninarello. L’io posto al centro del fatto artistico è nel caso di Kudoku, il primo dei tre lavori presentati, oggettivo: si manifesta nella datità di un corpo fisico (di Ninarello) in dialogo con quello sonoro (del musicista Dan Kinzelman, in scena). Kudoku si sviluppa in una modalità che potremmo definire classica: introduzione musicale, progressiva intensificazione di volume e corposità del suono a cui corrisponde un parallelo incremento cinetico di un corpo che con guizzi, scatti e movimenti segmentati asseconda (e solo raramente si contrappone) a ciò che la musica propone, in un discorso fatto di accenti, sospensioni, cambi di velocità, misurazioni dello spazio, rotazioni, invenzioni ritmiche e toniche che si offrono ai guardanti in parallelo a suoni ora lancinanti ora sommessi, reiterazioni in loop e guizzi improvvisi, cellule melodiche e rumorismi.
La scelta, minimale ma massimamente efficace, di rovesciare la consueta (almeno per noi occidentali) gerarchia per cui tutti gli elementi sono funzionali a valorizzare il corpo (danzante o attorale che sia) in scena rende percepibile oggettivamente l’io corporeo che la abita.
Alcune domande sulla consistenza artistica dell’io sono poste da una occasione connessa alla presentazione del secondo spettacolo di Daniele Ninarello in programma al Festival, Pastorale: la presenza in scena dello stesso Ninarello, in sostituzione di una interprete impossibilitata.
Senza addentrarci nelle dinamiche di questa fascinosa creazione (ne abbiamo scritto altrove), quella che nella realtà delle arti dal vivo è un fatto del tutto normale (una sostituzione) pone alcune questioni sul tema della presenza. Là dove nella versione consueta del lavoro la danza di interpreti analogamente efficaci rende massimamente evidente la scrittura coreografica, nella versione andata in scena ad Albenga la presenza scenica di Ninarello svettava su tutti e tutto il resto, nonostante non facesse, in apparenza, nulla o quasi di diverso rispetto all’interprete originale.
È qualcosa che ha a che fare, crediamo, con il mistero dell’espressione artistica.
Ciò che ci fa osservare il corpo danzante di Ninarello più degli altri è un dato culturale (sappiamo che lui è il coreografo, da anni apprezziamo il suo lavoro) o un dato naturale (anche un guardante ignaro di tutto avrebbe forse posto più attenzione a lui rispetto agli altri)?
In una struttura che non prevede “pezzi di bravura” o di enfasi dell’uno o dell’altro interprete (a differenza del balletto classico in cui, com’è noto, vi è netta distinzione coreografica, ad esempio, tra le ballerine di fila e le étoile) come funziona la presenza? Cosa fa porre attenzione a un interprete piuttosto che a un altro? E in generale: da cosa è data e come si migliora, la presenza scenica?
È un io scalciante e ribelle quello protagonista del terzo lavoro proposto da Ninarello (Nobody nobody nobody – It’s not ok to be ok): lo studio articola una progressione che va dalla costrizione alla protesta, da una partitura legnosa, segmentata, spastica all’incarnare un’iconografia della ribellione (calci, coito, lotta, rabbia), con schitarrate elettriche in loop e altri rumori a far da bordone sonoro. Quanto proposto ad Albenga è l’inizio di una creazione in divenire il cui sviluppo seguiremo con interesse.
Marco D’Agostin: l’io sentimentale.
Un io sentimentale e autobiografico è, come di consueto per Marco D’Agostin, il motore della creazione di Best Regards.
Introduzione emozionata, riferimenti alla pratica inattuale della scrittura di lettere da parte di Nigel Charnock, in passato Maestro dell’artista, di Virginia Woolf e di altri.
Al contrario di numerose ostiche stramberie dall’effetto distanziante che popolano il panorama performativo contemporaneo, le creazioni di D’Agostin si connotano per una relazione calda, rassicurante e -appunto- sentimentale che questo apprezzato artista instaura con lo spettatore.
Il discorso di introduzione progressivamente diviene più veemente, finanche performativo, vira verso la lingua inglese mentre su una tenda di perline sul fondo appare la corrispondente traduzione in italiano. La sequenza di testo e la partitura coreografica che emerge viene reiterata per sezioni e frammenti, in un loop con variazioni in cui la componente testuale lascia sempre maggiore spazio a quella coreutica. Il materiale scenico è riproposto e progressivamente slabbrato sopra a un bordone sonoro in modo minore, forse a suggerire l’inefficacia del linguaggio, l’impossibilità della comunicazione.
Altre lingue si aggiungono all’italiano e all’inglese, da dietro al fondale una serie di oggetti dal sapore pop (giocattoli sonori, fuochi d’artificio, bottiglie) invadono la scena, realizzando per accumulo una proposta in bilico tra l’eccesso e il non-sense, il kitsch e una buona domanda sui paradossi della comunicazione.
Il tema della corrispondenza epistolare, punto di partenza dello spettacolo, viene ripreso in maniera esplicita sul finale con la lettura di una lettera scritta da Chiara Bersani, artista con cui D’Agostin ha da anni un fitto rapporto di collaborazione. In questo caso l’io posto al centro del fatto artistico si realizza attraverso una relazione amicale e sentimentale e un’ostensione massimamente estroflessa di un sé esposto nelle proprie fragilità.
Francesca Sarteanesi: l’io dolente.
Tale attitudine -seppure con stile e temperatura diversissime- caratterizza anche le due creazioni presentate da Francesca Sarteanesi, protagonista di un’altra personale di Terreni Creativi 2021: il recentissimo Sergio e la precedente Bella bestia, in cui la straordinaria artista toscana è in scena insieme a Luisa Bosi.
Di tutto ciò ragioneremo ampiamente in un’intervista a Francesca Sarteanesi in corso di pubblicazione su questa testata.
Quotidiana.com: l’io disincarnato.
Un io presentato con l’amara, arguta ironia che da sempre caratterizza il lavoro di Paola Vannoni e Roberto Scappin e con l’espediente di un dialogo tramite messaggistica WhatsApp proiettato su uno schermo è al centro di End-to-End di Quotidiana.com, creazione il cui titolo suggerisce un interessante paradosso: la crittografia del sistema end-to-end, com’è noto, rende massimamente privato ciò che ci si scrive, laddove lo spettacolo è una pubblica condivisione di tali contenuti.
Discorsi di noti esponenti del panorama teatrale italiano (in primis Romeo Castellucci), l’inserimento di musiche ed effetti grafici a decorare e al contempo complicare la comunicazione visiva dello spettacolo aprono nuove prospettive sui «tanti ii» (Sanguineti, ancora) che popolano questa disincantata e disincarnata meditazione.
Francesca Foscarini: l’io pop.
Un dato seccamente biografico (la data di nascita dell’artista) e uno statistico (i brani in vetta alle classifiche in quell’esatto giorno, ogni anno dalla sua nascita ad oggi) sono gli elementi che, proposti in ordine “casuale”, danno il là a Hit me! di Francesca Foscarini.
Anche qui, come per Quotidiana.com, il contenuto referenziale è affidato a parole proiettate su uno schermo. Come nel caso di D’Agostin si opta per una comunicazione calda, accogliente, spontanea (il colore rosa su cui vengono proiettate le iniziali indicazioni, il chiamare unicamente per nome sia l’interprete che Chiara Bortoli, con cui il progetto è stato concepito e realizzato e che, a un lato della scena, offre all’ascolto istantaneo della coreografa e del pubblico una selezione dei brani possibili, gli sguardi diretti che -grazie a una telecamera e a un proiettore- la danzatrice lancia agli spettatori in un’ostensione che, offrendosi al nostro sguardo sempre più stanca e scapigliata man mano che lo spettacolo procede, sembra dare corpo a un’idea di bellezza come esposizione di un sé naturale (termine che usiamo consapevoli della scivolosa vaghezza di cui è portatore – Marcel Mauss docet).
L’io degli spettatori, in Hit me!, è convocato anche mediante gli inevitabili rispecchiamenti che molti dei brani musicali producono e sui quali Foscarini improvvisa (pratica che, a rigor di logica, rimanda al pescare “all’improvviso” da un proprio repertorio di possibilità e non dal creare dal nulla – questione ovvia pensando, ad esempio, al fatto che un esperto violinista possa improvvisare con il proprio strumento laddove un non violinista, semplicemente, non lo può fare).
La danza di Foscarini si realizza in diversi luoghi dello spazio scenico, componendo in molteplici direzioni e ampiezze proteiformi frasi coreografiche, anche utilizzando specifiche parti del corpo e del vestito.
L’io in questione, al di là del riferimento genetliaco, è ancora -come forse non può che essere, in ogni proposta essenzialmente coreutica- corporeo.
Perché quando uno dice «Io» – appunto – che cosa ti pensi che pensa, in fondo? – Nemmeno lo sa, quello che pensa, veramente. – E invece, dice queste cose qui, proprio, prima di tutto – perché dice i piedi dice tante dita – e poi dice la fronte, le cosce, l’ombelico – non so – dice le ginocchia, le ascelle – no?
[ Edoardo Sanguineti, Storie naturali, 1971 ]
Bartolini / Baronio: l’io nostalgico.
Al contrario, l’io raccontato da Tamara Bartolini e Michele Baronio è smaterializzato, evocato, costituito di memoria e nostalgia.
Lo spettacolo Dove tutto è stato preso è un viaggio a ritroso nell’infanzia che intreccia autobiografia e invettiva, istinto di autoprotezione e desiderio di raccontarsi, spinte al ripensamento e tensioni alla ricostruzione del sé e di quel sé esteso che è il luogo che si abita.
Con partecipazione e veemenza, i due artisti comunicano una fonda nostalgia per una dimensione collettiva del vivere e per una -finanche mitica- consistenza dell’infanzia, aneliti che assumono la materialità di costruzioni giocattolo, di piccole luci e di immagini sognanti proiettate su uno schermo tondo come una luna, fino al finale beneaugurante di un parto di cui si sente, unicamente, il suono.
Nina’s Drag Queens: l’io multiplo.
Terreni Creativi 2021 si è concluso con un divertente spettacolo delle Nina’s Drag Queens, esilarante quanto sapiente ensemble milanese en travestiein cui le possibili declinazioni dell’io prendono la forma di parrucche, tacchi vertiginosi e un florilegio di lamé.
A ricordarci con intelligenza che di tutto ciò si può anche ridere.
E che siamo, pur sempre, a teatro.
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MICHELE PASCARELLA
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info: https://www.terrenicreativi.it/, https://www.kronoteatro.it/
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