Il mistero e la grazia di Cassius Clay

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Ci sono spettacoli in merito ai quali è possibile enumerare con chiarezza le ragioni di un eventuale apprezzamento: la maestria degli interpreti, ad esempio, oppure la raffinatezza della scrittura drammaturgica, le invenzioni registiche, l’interesse per la storia raccontata, ecc.

Ce ne sono altri (ed Era meglio Cassius Clay è fra essi), il cui fascino è ben più difficilmente definibile.

Dato, certamente, da quanto detto sopra.

Ma anche da altro, che si approssima al mistero -e alla grazia- dell’espressione artistica.

Elemento del tutto personale ed empirico, dunque probabilmente inutile ai fini della presente restituzione: cartina di tornasole di quanto appena scritto, nella nostra seriale esperienza di guardanti, è il rimanere del tutto ammutoliti per un po’, al termine della (rap)presentazione.

Da qui si può partire, dall’intreccio fra presentazione e rappresentazione che questo allestimento propone.

Vi è finzione, certo. Si sta nell’alveo del teatro e del patto che vi soggiace: sospensione dell’incredulità.

Per cui davvero si fa finta di credere che Stefano Vercelli sia l’ex pugile Jimmy, Gianluca Balducci l’ex promessa del pugilato Tex e Angela Antonini Clara, ex attrice, ora animatrice di feste per bambini.

 

 

Gli si crede -o meglio ci si affida- perché sono attori di una bravura rara, antica, commovente nel senso letterale che ci fanno muovere con loro, nello stralunato habitat -luogo di relazioni vitali, dunque- che Rita Frongia ha disegnato per e con loro.

C’è una buffa malinconia, nell’affaccendarsi senza posa di Clara tra scadenti accessori da festa di compleanno e microfoni gracchianti, nelle smargiassate di Tex e nella sua larga quanto millimetrica precisione nel far da contraltare all’apparente immobilità di Jimmy.

Un’allegra nostalgia -dunque, etimologicamente dolore del ritorno- nell’ostensione di tutto questo ex.

Rappresentazione, certo.

Ma anche, come si diceva poche righe sopra, presentazione.

Un po’ come con i celebri cavalli di Kounellis esposti nella galleria d’arte nel ’69, questi corpi sono significanti in quanto tali – e non è sapienza da poco, riuscire a farlo accadere senza stucchevoli autobiografismi.

Ci riesce Rita Frongia per la rara grazia nel comporre i pieni e i vuoti, i ritmi e le reiterazioni, il comico e il tragico e -azzardiamo- per un’attitudine politicamente maieutica unita a una buona dose di anarchia, termine da intendersi non tanto nel senso volgare dell’ognuno fa ciò che vuole, quanto in quello più proprio: ciascuno è liberamente e pienamente responsabile di ciò che accade a sé e al mondo – anche a quello, strambo, della scena.

 

 

Sineddoche: la figura interpretata da Stefano Vercelli. Vi sono la consistenza e il mistero del butō, in quella maschera -dunque persona- muta ma eloquentissima, nella partitura millimetrica -intenzionale o meno non importa- del tutto incarnata e al contempo fantasmatica, sideralmente altrove e allo stesso tempo ficcante come una scheggia, ironica e dolente nel suo stare su una sedia a rotelle, agghindata e sonante come un carretto siciliano, attorno a cui tutto accade.

Come non pensare a Teatro e boxe. L’«Atleta del cuore» nella scena del Novecento di Franco Ruffini di fronte a questa scalcinata e vibrante allegoria pugilistica.

Come non ricordare FelliniAmarcord, appunto- guardando il brulicare di queste tre stranianti figure nella foschia.

Come non ringraziare.

Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo per pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie.

[ Italo Calvino, Le città invisibili, 1972 ]

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MICHELE PASCARELLA

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Visto a Drama Teatro, Modena, il 10 settembre 2021

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