Massimo Zamboni, riflessioni musicali sul concetto di Patria

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È dono degli artisti la capacità di riuscire, con le loro opere, ad addentrarsi all’interno di grandi questioni ed è da questo intrecciarsi di arte e concetti che nasce sempre una riflessione profonda sull’essere umano, sul passato, sul presente, sul futuro nostro e del mondo nel quale viviamo. Un mondo sempre più connesso, all’apparenza sempre più piccolo anche se immenso, all’interno del quale ci muoviamo liberi, cittadini del mondo. Eppure, per ognuno di noi, esiste un solo posto che chiamiamo casa, definito da confini talvolta invisibili perché emotivi. È entro questi limiti che si tratteggia quella che, silenziosamente e con un po’ di timore, definiamo Patria. La Treccani la definisce, in maniera generica, “il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni”. Ma che cosa significa per noi davvero questa parola? Se lo è domandando Massimo Zamboni, musicista e scrittore emiliano, dedicando a questo tema il suo nuovo album La mia Patria attuale, uscito lo scorso 21 gennaio per Universal Music Italia.

«Si tratta di una riflessione matura sulla propria appartenenza, su che cosa significa vivere in mezzo agli altri e ragionare in termini di Patria. Una parola che si fa fatica a pronunciare. Gli italiani non sono molto abituati a pronunciarla dandole importanza. È un concetto che è sempre nelle mani della propaganda o dei populismi o di chi comunque non ci sta raccontando la verità. È una parola che affronto sempre con molto ritrosia e con tanta precauzione, maneggiandola con molta cautela», racconta Zamboni. «Però ad un certo punto occorre anche confrontarsi con questo: continuare a lasciarla appannaggio di parti del Paese che la maltrattano e la stiracchiano in tutte le direzioni mi sembra una pratica da abbandonare. Io non faccio parte di quell’Italia che espone la bandiera tricolore, non sono mai riuscito a farlo perché sento molta distanza da questo. Non c’è nessun reclamo, non c’è nessun primato italiano rispetto al mondo, anzi in qualche modo siamo in una posizione di grande decadenza e minoranza. Tutte queste sensazioni si sono mescolate insieme. Ogni volta, quando c’è qualcosa che non comprendo desidero approfondire e lo faccio di solito attraverso un libro o un album dedicato al tema».

Perché per la parola Patria hai optato per un album musicale?

«Questa volta era più compito della parte musicale che di quella letteraria. Non volevo scrivere un saggio su questo, ma volevo realizzare un meccanismo molto più immediato, quasi cantautorale, che è un po’ la cifra dello scambio musicale italiano. Ho iniziato così a comporre canzoni che avessero a che fare con questo tema e con tutto lo sconcerto che provoca in me in primo luogo».

Nell’ascoltarlo si possono rintracciare diversi registri musicali che si alternano. C’è un intento comunicativo e/o artistico in questa scelta?

«Sì, anche se ho cercato di tenere come minimo comune denominatore la voce che in ogni brano è molto evidente, a volte anche oltre i limiti della ragionevolezza. La voce e le parole assumono un posto di rilievo in primo piano. Questo è ciò che musicalmente lega un po’ tutto l’album, dal mio punto di vista, oltre ovviamente al concetto che sta alla base. Poi, certo, ci sono anche stili molto diversi tra di loro che mi sembravano però necessari per dare un’idea più variegata di questo pensiero. Non volevo fosse monocromatico e infatti si alternano parti più forti e declamate ad altre quasi sussurrate o addirittura parlate. Credo che ci sia bisogno di tutte queste tonalità per allargare un po’ il discorso».

Si potrebbe quindi dire che il tema della Patria viene elaborato non solo attraverso il significato dei testi, ma anche in base al tipo di stile musicale scelto?

«Credo sia molto giusta questa affermazione. Ho cercato di eliminare ogni cosa che all’orecchio suonasse esterofila, quindi i grandi chitarroni, i potenti arrangiamenti, l’elettronica. Tutto quello che immediatamente ci porta a un’idea musicale che non è nata in Italia, non è nostra. La percepiamo, la pratichiamo, certo, perché siamo cittadini del mondo e contemporanei, ma occorre riconoscere che la base del nostro comunicare musicale è molto più vicina al cantautorato. O, a volte, anche alla canzonetta: vedi ad esempio il brano Tira ovunque un’aria sconsolata che gioca infatti con questa canzonetta leggera, stile anni Sessanta, quando l’Italia era ancora un Paese che coltivava speranze e aveva un’idea di progresso, di uscita dalla guerra, di avviarsi verso una ricostruzione che in qualche modo è avvenuta in mezzo a strutture terribili. Ho tenuto conto di questa italianità necessaria nella scelta musicale. Pensiamo anche solo al primo brano dell’album, Gli altri e il mare: mai avrei pensato di dedicare un brano al mare e al Mediterraneo. Eppure è la carta d’ingresso del nostro Paese, perché per la maggior parte delle persone l’arrivo in Italia significa affrontare le sue coste. Quindi ho voluto cominciare questo cammino proprio da qui».

Dal primo brano dedicato alle coste del Mediterraneo all’ultimo dedicato all’Emilia, Il modo emiliano di portare il pianto. Qual è questo modo raccontato nella canzone e perché è stata scelta per chiudere l’album?

«Innanzitutto per rivendicare la regionalità del nostro essere italiani. Noi sentiamo molta più appartenenza alla nostra regione di origine che all’intero territorio nazionale. Volevo concludere con un grande funerale e penso non ci sia modalità migliore di parlare dell’Emilia che non attraverso questo, accompagnato da una banda partigiana che suona una canzone di addio. È un funerale che accompagna l’idea novecentesca dell’Emilia, quella del grande progresso, dello slancio verso il mondo, dell’emancipazione, del riscatto. Certamente l’Emilia è una regione che ancora si lascia attraversare, è ancora molto aperta e volevo rivendicare questo suo essere. È una regione che non si piange addosso e la modalità emiliana di portare il pianto è quella di lavorare, di affidare al lavoro la maggior parte delle nostre frustrazioni. Un lavoro che non appaga soltanto chi lo esegue, ma che viene inserito in meccanismo molto più grande e molto complesso: vale a dire sentire che il nostro lavoro serve a tutti. Questa è un’attitudine molto emiliana e volevo cantare questo».

Dieci tracce che, insieme, offrono il ritratto di un Paese che arranca, proseguendo a tentoni un po’ nel buio, schiacciato dagli stereotipi e dalle narrazioni intossicate. Eppure, da questo buio, affiora una luce, in grado di creare una sorta di equilibrio tra il profondo pessimismo che ci accompagna e la speranza per il futuro che resta accesa. «Credo che il pessimismo di per sé sia già abbastanza coltivato in questo Paese e non volevo aggiungere tormento a tormento», afferma Zamboni. «In qualche modo mi rendo conto che c’è un’Italia invisibile, bellissima, solida, sana, forte, colta, intelligente che si spreme e si affatica. Non viene mai riconosciuta, anzi tutti cercano di affossarla come fosse un pericolo quando invece rappresenta la colonna vertebrale del nostro Paese. Volevo cantare anche questa Italia».

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