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«Queste le ballavo al Bul Bul!» dice entusiasta all’amica, mentre applaude con vigore, la signora seduta dietro di noi, ricordando gli anni di gioventù in discoteca.
Al Teatro Testori di Forlì è appena terminato Tradimenti, da Harold Pinter, testo che com’è noto racconta l’avventura di un triangolo amoroso: marito, moglie, amante della moglie che è anche il miglior amico del marito. A ritroso: si parte quando la storia è ormai finita, passo a passo si giunge a quando la vicenda sta iniziando.
E così noi, in queste brevi note a margine.
«Queste le ballavo al Bul Bul»: qui sta un primo, essenziale livello del lavoro di Michele Sinisi.
Una veracità capace di parlare ai molti.
«La pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea», per dirla con Flaiano.
La beata libertà di intrecciare il colto e il popolare, ciò che comunemente è percepito come alto e quello che viene considerato basso: Shakespeare e le bombolette spray in altre folgoranti occasioni, uno dei grandi nomi della drammaturgia novecentesca e i Duran Duran in questa.
Il pubblico applaude grato.
Anche l’adolescente suonatore di chitarra elettrica seduto un po’ più in là.
E non è poco.
E non è da tutti saperlo fare.
E poi.
Poi c’è un altro livello, a lato, che è quello della lingua.
Che ci potrebbe far sintetizzare: un allestimento rigorosissimo, finanche etimologico, del testo.
Nell’origine del verbo tradire, così come di tradurre, vi sta l’atto del portare, del consegnare.
In questo allestimento Sinisi affida, o meglio -appunto- consegna al linguaggio, al testo intoccabile di Pinter, la possibilità di creare un mondo, non solo di significarlo o raccontarlo.
Ciò, sia detto a scanso di equivoci, non ha nulla a che vedere col naturalismo. È più prossimo all’attitudine brechtiana di mettere in crisi l’assuefazione dello spettatore alla finzione dentro e fuori la scena (anche) attraverso le parole: a questo fanno pensare le didascalie che senza posa affiorano dall’imponente elemento scenografico di Federico Biancalani al centro dello spazio, davanti e attorno al quale le figure dicono il loro dramma.
Ma c’è di più.
Vien da pensare al famoso corso che nel ‘55 il linguista John Langshaw Austin tenne all’università di Harvard. In quella occasione diede forma a quella che da allora è nota come Teoria degli atti linguistici: dire qualcosa è fare qualcosa, si potrebbe forse sintetizzare.
Cosa fa il testo attraversato dai corpi (fisici e vocali) di Sinisi e dei suoi straordinari compagni di scena Stefano Braschi e Stefania Medri?
Trasforma quella realtà, stramba e al contempo affatto plausibile, in una corsa a ritroso: non solo nella vicenda dei personaggi, piuttosto nella possibilità stessa di significare.
Linguisticamente, teatralmente: questo Tradimenti è un dispositivo che tende all’afasia.
Lo spettacolo inizia con una sequenza di dialoghi scenicamente del tutto impeccabili: pause e accelerazioni, flussi verbali e sospensioni, una ridda di variazioni toniche, ritmiche e di direzione morbide e millimetriche, da manuale.
Bisogna saperlo fare. E i tre attori sul palco lo sanno fare alla grande.
Man mano che lo spettacolo va avanti -e dunque, come detto, il contenuto referenziale retrocede– la regia abdica a sfoggiare quell’artigianale sapienza dell’inizio, il ritmo rallenta, il tono progressivamente si incupisce fino al folgorante, assurdo finale composto da una lunghissima (insostenibilmente lunga, inconcepibilmente immobile, secondo i canoni della convenzione teatrale tradizionale) scena “da discoteca”, con musichette e luci colorate, il marito abbandonato su una sedia, lei impegnata in una danza solipsistica zeppa di mossette e di cliché e l’amante che in controluce non è più neanche personaggio ma solo figura, sagoma vuota.
È un affilato, spietato percorso, quello che è dato a vedere: prende progressivamente consistenza un magma che precede il linguaggio formato, la possibilità di significazione e di relazione, finanche il mero darsi a vedere.
Al significato dell’invenzione di Pinter corrisponde il significante teatrale di Sinisi.
Coup de théâtre: il fondo scuro a cui si approda si rivela sulle note di Michael Jackson e dei Clash.
Si inorridisce per questo niente che avanza e al contempo non si riesce a non ballicchiare, seduti in platea.
Questo bisogna saperlo fare.
Bisogna sapercelo far fare.
Roba da grande teatro.
MICHELE PASCARELLA
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