La potenza del pensiero: tra Macerata, Modena e l’altrove

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Tra pandemie, guerre e abbruttimento dilagante cosa è, oggi, un luogo di cultura?

La risposta che a Drama Teatro, a Modena, sembrano dare: un aperto in cui creare, con calore, connessioni e relazioni significanti tra diversi ambiti del sapere e del reale.

Nelle scorse settimane abbiamo incontrato un ulteriore esempio, tripartito, di questa attitudine maieutica e rizomatica attraverso tre proposizioni, tra atti di pensiero e performativi (distinzione che nella proposta modenese si assottiglia fin quasi a scomparire) di cui daremo brevemente conto in queste righe: non in senso valutativo -ci mancherebbe- ma come elementi di un discorso complesso e al contempo estroflesso, denso e accogliente.

A proposito di luoghi e discorsi, vien da pensare al filosofo gesuita Michel de Certeau e alla sua riflessione sulla «necessità di fondare il posto da cui [si] parla», là dove precisa: «Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati (o «autorità») sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione» (per chi fosse curios_: in Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 254).

Venendo al punto – o ai tre punti, come la si vuol vedere: Magda Siti, Stefano Vercelli e il manipolo di donne e uomini da loro guidati si sono fatti luogo, appunto, di un discorso che ha coinvolto Teatro Rebis (in questa occasione con Patrizio Dall’Argine e Veronica Ambrosini), Walter Siti, Teatro Patalò e Principio Attivo Teatro a dare corpo e carne alla potenza del pensiero.

 

 

Teatro in senso etimologico, dunque, luogo di sguardi e visioni. Tra Macerata, Modena e l’altrove, si diceva nel titolo di queste poche righe.

Riprende il titolo dell’unico film diretto da Jean Genet, nel 1950, Un chant d’amour, lo spettacolo di Teatro Rebis che a Modena è stato introdotto da un folgorante incontro in cui il regista Andrea Fazzini e il burattinaio Patrizio Dall’Argine hanno presentato il lavorio che ha accompagnato la genesi della creazione performativa tramite un appassionato e appassionante racconto e mostrando un’opera video realizzata ad hoc per accompagnare lo spettacolo, riprendendone e rileggendone fonti e riferimenti.

La vicenda, del 2018, della ragazza di Macerata uccisa e fatta a pezzi da un uomo nigeriano che scatenò, due giorni dopo, la furia omicida di un nazifascista del luogo e la diffusa accettazione, se non addirittura l’esplicito apprezzamento, di molti cittadini verso questa reazione costituiscono il punto di partenza per uno spettacolo che vuole affrontare, in senso poetico e non meramente cronachistico, le ripercussioni sociali di questi fatti.

 

 

«Con i nostri fasti, le nostre affettazioni, la nostra insolenza – poiché siamo anche commedianti – cercheremo di aumentare la distanza che fin dall’origine ci divide»: è con attitudine non pacificata che lo spettacolo assume, come reagente letterario e teatrale, l’atto unico di Genet I negri (1958) in cui «in maniera non narrativa, ma cerimoniale» come spiega Andrea Fazzini che del drammaturgo francese è profondo conoscitore «una scalcagnata compagnia teatrale recita ogni giorno il rituale di un uomo nero che uccide una donna bianca».

Il rapporto biunivoco che questo cortocircuito instaura nella ricezione dello spettatore trova un ulteriore doppio (in un’idea e una pratica di teatro che si potrebbe definire, alla maniera di Antonin Artauddoppio della cultura: viaggio verso/nell’altro, esplorazione e confronto con l’alterità, a partire dalla propria) nella forza demoniaca e pura dei burattini ideati e realizzati da Patrizio Dall’Argine e da lui messi in azione insieme alle altre figure in scena, in primis Veronica Ambrosini.

 

 

L’entrata di un officiante in figura di mimo funebre incarnato dal minuto e al contempo possente corpo-voce di Meri Bracalente, straordinaria nella millimetrica precisione del suo comporre la scena e mettere in movimento le figure che la abitano, dà avvio a un rituale di contemporanea, controllatissima possessione -sembra qui risuonare la lezione di Jerzy Grotowski– in cui la più ferale cronaca si intreccia a riferimenti archetipici e toni ora lirici ora ferocemente grotteschi fanno risuonare un dispositivo minimale ed elegante.

Qualche giorno dopo, Drama Teatro si è fatto salotto per accogliere un denso dialogo guidato da Walter Siti, celebre scrittore, critico letterario e saggista. L’occasione: il suo recente Contro l’impegno (Rizzoli). Titolo dell’incontro: I buoni sentimenti fanno i testi brutti? Protagonisti, assieme a Siti: gli artisti che nel mese di febbraio hanno portato il loro lavoro in questo luogo di cultura e arte (qui il video dell’incontro).

 

 

Analogamente all’officiante di Un chant d’amour, Siti ha con magistrale sapienza creato relazioni e connessioni, ponendosi in ascolto delle esperienze degli altri ospiti e al contempo articolando un discorso ricco di riferimenti letterari e teatrali, dalla poesia di battaglia di Alessandro Manzoni all’impegno che, se malinteso, porta alla spettacolarizzazione della realtà, dall’abbandonarsi alla possibilità che il testo dica quel che non sa di voler dire – con Amelia Rosselli che dichiarava di conservare, delle poesie che scriveva, solamente quelle che non capiva- alla possibilità di lasciare alle parole l’iniziativa: «Come può farlo un regista con un attore?» Siti chiede ai presenti, dando loro la parola.

Un aperto in cui creare, con calore, connessioni e relazioni significanti tra diversi ambiti del sapere e del reale.

Chapeau.