A cosa serve Bros di Romeo Castellucci?

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ph Jean-Michel Blasco

 

Per i pochi che leggeranno queste righe, probabilmente Romeo Castellucci è un mito, o quasi.

Uno che, se capita di parlarne, magari lo si chiama anche solo per nome, tanto si sa di chi si sta parlando, e ci si sente pure un po’ parte di un club.

Va da sé che per i Molti al di fuori della società teatrale, per quel mondo reale a cui fin troppo spesso ci si riferisce come nutrimento e destinatario delle creazioni artistiche, Romeo Castellucci, semplicemente, non esiste.

Abbiamo fatto un piccolo sondaggio con i nostri condomini.

Senza giudizio, per curiosità (o, meglio, per esame di realtà): Romeo Castellucci non sanno proprio chi sia. E così, già che c’eravamo, per un manipolo di altri che di solito si chiaman per nome, dalle nostre parti: Daria, Ermanna, Virgilio, Armando, Roberto. E nemmeno Carmelo Bene, sapevan chi fosse, l’abbiamo chiesto giacché proprio oggi ricorre il ventennale della morte, da molti di noi giustamente ricordato e onorato.

Tant’è: i nostri condomini certo non saranno fra i lettori di questo articoletto, è dunque inutile elencare le moltissime onorificenze, i successi internazionali, i progetti stratosferici che hanno visto, vedono e vedranno protagonista Romeo Castellucci.

Non è possibile esaurire i significati di Bros: è una creazione che, come da consolidata tradizione castellucciana, organizza significanti che possono (devono?) autonomamente essere connessi nella mente dello spettatore, secondo le esperienze e le competenze di ciascun_.

Riteniamo dunque più corretto, a partire dal dispositivo di segni messi in campo, accennare ad alcune funzioni (cinque) a cui questo spettacolo sembra assolvere.

Al di là del bello/brutto, dei mi piace/non mi piace/non mi è mai piaciuto/non mi piace più, dei Castellucci non è più quello di una volta/Castellucci è tornato ai vecchi fasti/Castellucci è più visionario che mai (tanto facili quanto inutili) crediamo opportuno chiederci per un attimo a cosa serva, appunto, una tale impresa produttiva.

 

ph Jean-Michel Blasco

 

Prima funzione, lapalissiana: creare un discorso.

Esserne oggetto e occasione.

Seconda funzione: attivare lo spettatore, offrendo un’esperienza estetica (aggettivo ancora una volta da usare come contrario di anestetica, non di inestetica) più vicina alla Piramide invisibile di De Dominicis che al Painitng to hammer a nail di Yoko Ono, invitando dunque a un agire smaterializzato, nella mente di ciascuno, appunto.

Bros dà vita a un dispositivo scenico aperto che -un po’ come le Opere raccontate da Eco sessant’anni fa- si realizza e completa mediante la fruizione dello spettatore.

In questo senso è una creazione che potrebbe certo essere presentata in un Museo d’arte contemporanea (e non è detto che non lo sia stata o non lo sarà, considerata la lunga fila di co-produttori internazionali spesso più abituati di noi all’ibridazione delle arti e dei luoghi che le accolgono).

 

ph Luca Del Pia

 

Terza funzione (che poi è anche l’esplicito tema dello spettacolo): riproporre l’antica questione del “rapporto con la Legge, la responsabilità individuale e collettiva, la dimensione gregaria”, come si legge nella scheda presente sul sito dell’Arena del Sole di Bologna, dove abbiamo visto Bros l’11 marzo scorso.

Le decine di figuranti eterodiretti, auto-assoggettatisi a un rigoroso quanto affascinante Indice comportamentale consegnato a ignari partecipanti nonché agli spettatori, a mo’ di foglio di sala (potrebbe averlo scritto Robert Walser), servono a porre -o almeno a ricordare, e non è mai abbastanza- il dilemma dell’obbedienza.

“Un gruppo di uomini anonimi, in divisa da poliziotto, riceve in tempo reale dei comandi da un auricolare e si impegna a portare a compimento l’ordine”: questa la situazione, questo il patto esplicito.

Le figure (non è manifesta, scientemente, alcuna profondità psicologica, in loro) a più riprese eseguono senza opinione le più insensate violenze, come l’accanirsi in gruppo con calci e manganellate su un corpo nudo e rannicchiato a terra.

È fin troppo facile assumere dall’esterno un atteggiamento critico nei confronti di tali soggetti obbedienti, ma questo giudizio sarebbe solo il risultato della nostra innata attitudine a formulare in astratto norme morali. La disobbedienza sarebbe (forse) la strada da percorrere ma, nella dinamica della situazione reale, spesso non si è capaci di tradurre i propri valori in azioni.

Ciò avviene, Bros ci ricorda, forse per buona educazione, forse per l’impegno a mantenere la parola data a collaborare con il regista, forse per la vergogna di tirarsi indietro o forse perché, in fin dei conti, si sta facendo finta, si è pur sempre a teatro.

Allargando: tali motivazioni fanno tipicamente parte dell’attività mentale di persone che tendono a sottomettersi facilmente quando l’autorità dà un ordine, spesso concentrati sugli aspetti tecnici del loro compito e così perdendo di vista le conseguenze finali.

Tutto ciò ha più a che fare con la psicologia sociale che con il teatro, si potrebbe obiettare.

È proprio sotto questo aspetto (più che negli stilemi e nei segni affatto riconoscibili della pratica scenica di Castellucci) che si concretizza la quota di sperimentazione a cui Bros dà luogo.

 

ph Jean-Michel Blasco

 

Quarta funzione: rinnovare l’elemento rituale dell’accadimento teatrale.

Rito mondano, certo, a giudicare dal parterre.

Ma anche rito in cui dai corpi (fisici, sonori, luminosi, materici) emergono la temporalità, la contingenza e l’instabilità dell’identità, che com’è noto non è mai qualità innata.

Rito orgiastico e misterioso, Bros, opera dell’arte più e prima di essere opera d’arte, che a tratti sembra citare, per le bianche tuniche e non solo, la furiosa ricerca di Hermann Nitsch: “L’orgia è un mistero. È il mistero di un’altra religione. Un culto che dice sì alla vita e mostra i principi primi della natura” ha scritto l’artista austriaco a proposito del proprio lavoro, ma si potrebbe dir lo stesso per Bros “Non c’è conflitto tra orgia e mistero, sono solo aspetti differenti. Il culto orgiastico ellenistico vede l’immanente e il trascendente in contatto tra loro”.

Quinta funzione: guardarsi guardare.

Quanto siamo disposti, come ripeteva Grotowski al suo collaboratore essenziale Thomas Richards, a considerare qualsiasi cosa in cui ci imbattiamo come una domanda?

Quanto siamo interessati a ricevere le forme del mondo come occasioni per guardarsi guardare, si potrebbe dire con Merleau-Ponty, piuttosto che per occasioni di dir la nostra?

Bros, spettacolo che non (si) chiude, che non si esaurisce in un racconto, in un significato, serve anche a lasciare interdetti. E non è poco.

 

2 COMMENTS

  1. Ho visto la prima a Bologna. Bello, ma la questione dei figuranti ignari non regge. Troppa precisione, ed è impossibile immaginare ordini verbali in tempo reale che possono far comporre certi quadri così precisi (a partire da quelli ispirati a celebri dipinti). Non so quanto abbiano provato ma sono sicuro che non sentono gli ordini per la prima volta in scena. A tal proposito suggerisco anche di andare a vedere i nomi dei così detti uomini della strada delle diverse repliche italiane: non sono pochi i nomi che tornano. Faccio teatro da anni e posso assicurare che quelli visti in scena aderivano certamente a un patto, quello sancito tra un regista e un gruppo di attori che mette su uno spettacolo, dopo averlo provato. Non c’era bisogno di aggiungere allusioni di pseudo piscologia sociale sull’obbedienza.

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