L’immoralità leggendaria: su Il fiore del mio Genet del Teatro delle Bambole

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Teatro delle Bambole, Il fiore del mio Genet - ph Massimo Demelas

 

“L’arte è il rifugio meno vile degli schiavi”.

Lo scrive Jean Genet in apertura di un breve, denso, urticante, illuminante testo contenuto nel volume a lui dedicato, L’immoralità leggendaria, pubblicato da Ubulibri nel 1990 e che porta in copertina alcuni suoi ritratti, disegnati da Jean Cocteau su una tovaglia di carta.

Il titolo del testo di Genet a cui abbiamo accennato è L’arte è il rifugio.

Ci sembra che in queste basiche, finanche pedanti informazioni ci siano gli elementi per evocare il breve, denso, urticante, illuminante Il fiore del mio Genet del Teatro delle Bambole.

Spettacolo itinerante tra i bassifondi dell’anima, è il sottotitolo.

 

Teatro delle Bambole, Il fiore del mio Genet – ph Massimo Demelas

 

Abbiamo incontrato Andrea Cramarossa e il mobile ensemble da lui diretto in altre due occasioni: nel 2017 a Rimini e due anni dopo a Napoli.

Questa volta siamo andati a Milano, al Teatro Linguaggicreativi, per uno spettacolo di qualche anno fa ma che non avevamo ancora avuto occasione di vedere.

Non c’è due senza tre, come si suol dire.

Ancora e ancora siamo rimasti incantati dal rigore radicale, dalla grazia feroce, dalle cupe visioni di questo ensemble che, tra mille difficoltà, indaga e abita l’arte della scena come luogo tremendo e lieto, come abisso luminoso e pericoloso da attraversare e da cui farsi attraversare.

L’arte è il rifugio, si diceva: idea romantica, letteralmente e storicamente, da artista che chiuso nella propria torre o stanzetta combatte con i propri demoni per addivenire alla creazione, all’opera, e poi offrirla come dono sacrificale al mondo. Mondo da cui, attraverso l’arte, paradossalmente trova scampo, rifugio.

Vien da pensare al capolavoro di Dosso Dossi Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù (1523-1524): Mercurio col dito fa cenno di fare silenzio, di non disturbare l’artista al lavoro.

 

Dosso Dossi, Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù, 1523-1524

 

L’arte è il rifugio, appunto.

Poi, con uno degli spiazzanti ribaltamenti di senso a cui ci ha abituato, Genet aggiunge: “meno vile degli schiavi”.

“L’arte è il rifugio meno vile degli schiavi”: nessuna romantica fuga, nessuna eroica espressione di sé, nessuna nobile eccezionalità.

Bassifondi dell’anima.

Per contrapporsi al mondo, questo teatro non rivendica la realtà, nemmeno la plausibilità: si trasforma immediatamente in ciò che gli altri vedono in lui.

 

Teatro delle Bambole, Il fiore del mio Genet – ph Massimo Demelas

 

Il mondo strambo della scena a cui le due polimorfe figure danno luogo trasduce di quello reale la feroce dialettica tra apoteosi e derisione, si potrebbe sintetizzare con un altro grande Maestro del Novecento teatrale, tra slanci lirici e spasmi ipertrofici, in un immaginario che ibrida Querelle de Brest e un incubotico bestiario à la Borges, i riti processionali e la più tagliente iconoclastia, che fonde sguaiatezza e fragilità, insensata ferocia e dialoghi delicatissimi: a dar vita, e al contempo forzare, un dispositivo -quello teatrale- a cui ci si affida ma di cui al contempo si mostra l’insufficienza.

In questo senso sono affatto significanti le musiche -ora avvolgenti, ora ritmiche, ora liriche- che sembrano coprire aree di significazione a cui la parola non può giungere, nonostante la piena sincerità dell’autore.

Sincerità, sia detto per inciso, è un termine qui usato non in riferimento all’autobiografia -che non conosciamo e non ci riguarda, in merito ai temi trattati dallo spettacolo- piuttosto a una attitudine finanche scientifica di trattare i materiali che il dispositivo scenico mette in campo.

Verità, si potrebbe forse dire, se non fosse un termine ancor più scivoloso.

 

Teatro delle Bambole, Il fiore del mio Genet – ph Massimo Demelas

 

Occorre spendere qualche parola sui due interpreti, Federico Gobbi e Domenico Piscopo, che con rigore monacale danno corpo e voce alle visioni poetiche -dunque creative, o meglio creaturali- di Andrea Cramarossa.

Immoralità leggendaria: ai due attori in scena pare essere richiesto di muoversi, senza posa e con chirurgica precisione, tra queste polarità.

Immorale: ciò che rifiuta costume e misura.

Leggendario, da leggenda, dunque del leggere e del raccontare storie meravigliose e popolari.

Meravigliose: che generano meraviglia.

Un passo all’indietro -o molti- fa e fa fare l’arte del Teatro delle Bambole: un’attitudine certamente altra rispetto all’imperante regola, vigente anche nell’alveo di ciò che una volta veniva chiamato teatro di ricerca, della standardizzazione, della facile leggibilità, della drastica riduzione del numero di significanti offerti allo sguardo e di significati offerti alla ricezione.

Non vi è alcuna semplificazione, nessuna scorciatoia, per incontrare questo Genet, piuttosto un’attitudine elementare: qui si mettono in evidenza gli elementi dell’arte del teatro.

Si fa un passo indietro. O molti.

Gli elementi del teatro -finanche classico- ci sono tutti: referente drammaturgico, luci, costumi, maschere, oggetti di scena, musiche, attori che sanno -eccome- fare il proprio mestiere.

Siamo nel regno della rappresentazione: non vi è esplicita ostensione dell’identità dell’io di marca performativa, in questo fiore.

 

Teatro delle Bambole, Il fiore del mio Genet – ph Massimo Demelas

 

È certo teatro.

Che ricostruisce il grande teatro del mondo con i mezzi che gli sono propri.

E che, come nelle sue origini, finanche nella sua etimologia, contempla la visione: l’affannoso, commovente tentativo di approssimarsi -artisti e spettatori insieme- a ciò che non conosciamo, che non possiamo dire.

E che generosamente ci nutre.