Quello che non puoi nascondere. Su Trascorritoio di Francesca Proia

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Francesca Proia, Voce lattea

Quello che non puoi nascondere mettilo in evidenza”: era uno dei motti del teatro d’antan, utile a introdurre queste poche inadeguate righe su Trascorritoio, recentissimo romanzo della ravennate Francesca Proia.

Inadeguate: perché io, una recensione letteraria, a dire il vero, non la so fare.

Teatro, danza e arti visive sono i miei ambiti di studio e di lavoro. Leggere leggo, certo, ma mi mancano completamente le categorie, le competenze per mettere in relazione autori, stili, correnti. Ho sempre privilegiato un approccio da storico, nelle mie piccole scritture: il più possibile lontano dalla “critica di gusto”, come si diceva nel Settecento – per cui l’opinione del critico vale in quanto tale ed egli (o più raramente, ahinoi, ella) articola un discorso che spiega perché quella determinata opera gli è o non gli è piaciuta – ho sempre cercato di mettere in relazione autori, stili e correnti, appunto. Inserire un accadimento in un panorama.

In letteratura, questo, io non lo so fare.

Io: parola vietata in ogni recensione che si rispetti, da preferire a un tono impersonale (“si pensa che”, “è possibile evincere che”, …) o a un plurale maiestatis: d’antan, appunto.

Questo fin troppo lungo preambolo per introdurre tre elementi di Trascorritoio che desidero condividere con i pochi che leggeranno queste poche righe.

Primo elemento: l’io. O il rapporto con la realtà.

Ieri sera sono andato al cinema.
– E com’era il film?
– Stupendo. E poi era tratto da una storia vera!

Nel sentire comune, figlio di una idea settecentesca di bello come imitazione della natura, la stretta relazione figurale tra opera e mondo è considerata indice di artisticità, secondo un meccanismo (alcune volte consapevole, tante altre no), per il quale solitamente esclamiamo “Meraviglioso, sembra vero!” (o anche: “È come una fotografia!”) di fronte a un disegno raffigurante, ad esempio, un albero.

Ho passato almeno la metà delle 166 pagine del romanzo a domandarmi se la vicenda narrata (di Tacita, della sorella Tundra e dei loro affannati genitori) fosse autobiografica. Un po’ come eventuale valore aggiunto, appunto. Un po’, o meglio, per capire in quale territorio mi stavo muovendo, se della finzione o dell’autobiografia.

Eccoci al punto.

E all’ornitorinco.

Animale quanto mai indefinibile che, come Umberto Eco ci ricordava già un quarto di secolo fa (Kant e l’ornitorinco, 1997), mette radicalmente in discussione i nostri schemi cognitivi, i punti di partenza su cui ci basiamo per classificare, o anche solo incontrare, il reale.

Ma che animale è?

Ma questa, è letteratura? È una storia inventata? O vita vera?

Pagina dopo pagina, un po’ alla volta, mi sono abbandonato all’idea -o, meglio, alla percezione- che la verità di cui il romanzo è indubbiamente portatore non sia (auto)biografica, o almeno che non sia questo il punto: la verità, o almeno la plausibilità di queste pagine, è data dalla millimetrica precisione delle parole con cui Francesca Proia descrive, o meglio (ri)mette in vita, il più sottile sentire delle figure che le (la) abitano.

Propriocezione, credo si dica.

Un’accurata ricognizione di ciò che si muove, nel corpo et ultra, che viene offerta al lettore come un invito al viaggio, facendo dell’inaudito coraggio e della smisurata attenzione dell’autrice -che di lei si parli veramente o meno- nell’ostendere il proprio percepire la condizione perché questo teatro (anatomico) in forma di libro possa esistere.

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Enrico Fedrigoli, Francesca Proia

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Secondo elemento: l’ironia.

Da molti anni seguo con rispetto e interesse le proteiformi, inclassificabili avventure (artistiche, intellettuali, creative – dunque umane) di Francesca Proia, tra danza, yoga, scrittura. Un aspetto che non conoscevo del suo mondo di segni è l’ironia, termine qui da intendersi non tanto in senso socratico, dunque di distanza tra sé e ciò di cui si tratta (vedi sopra), quanto del liberatorio -e al contempo inquietante- sghignazzo che affiora, inaspettato, leggendo.

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Henrique Oliveira, Transcorredor

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Terzo elemento: la funzione trasformativa dell’arte.

In epoca di pandemie, guerre e crescente inaridimento umano me lo domando sempre più spesso: a cosa serve l’arte? A cosa, la cultura? Una possibile risposta è data dall’esperienza che la protagonista Tacita fa a Prato, al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, dove attraversa la monumentale installazione immersiva Transcorredor di Henrique Oliveira, effettivamente presente in quel luogo qualche anno fa (ah, ma allora è una storia vera!).

Il racconto di quell’accadere corre parallelo alla narrazione delle vicende familiari, mettendo in luce tre possibili (o, meglio, auspicabili) funzioni dell’arte: trasformazione, sbigottimento, delocazione.

Dal culturale al naturale? Dal fuori al dentro? Dal buio alla luce al buio (per citare un progetto performativo di Francesca di una ventina d’anni fa)? Dal dicibile all’indicibile? Dal qui e ora al qui e allora?

A ciascun_ le proprie risposte e, soprattutto le proprie domande.

A partire – per citare un’altra donna valorosa, e scrittrice, e ravennate, Laura Gambi – da “quel senso di spaesamento che ogni incontro che si rispetti dovrebbe provocare”.

Dire grazie, almeno.

 

Mistero glorioso
la faccia del mondo
sotto la tessitura di nomi,
festa del sangue
le ferite che vengono al rosso
per filare luce.
Nel cuore della notte
(la notte ha cuore)
accerchiante buiezza
l’io è uno sbando
qualcuno che non ti pensa –
quasi mai.
Mettiti nei tuoi panni
e comincia a danzare.

[ Chandra Livia Candiani ]

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