Salvezza, isolamento ed essenzialità nel film Nulle trace di Simon Lavoie

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Presentato allo Slamdance Film Festival 2021, e successivamente in anteprima italiana al Lucca Film Festival e Europa Cinema, ho avuto il piacere e l’onore di visionare, con un occhio diverso, Nulle trace del regista e sceneggiatore canadese Simon Lavoie, prendendo parte alla Giuria Studentesca a Lucca.

Opera poetica, potente, mi ha ricordato la bellezza che lo sguardo coglie nei film di Ingmar Bergman.

Il film, per ambientazione e giochi di camera, sembra un omaggio ad Andrej Tarkovskij e al suo capolavoro Stalker (1979).

Il regista Lavoie studia in modo davvero geometrico ogni inquadratura, andandone a ricercare la pura e meravigliosa essenza, la sua infatti è una ricerca mirata a filmare ciò che è invisibile, partendo dall’alternarsi dei due formati che utilizza (panoramico e ristretto).

Usando delle tecnologie innovative di ripresa crea un’illuminazione metafisica, una dimensione cristallizzata come un mondo in negativo lavorando nell’indefinitezza di quel mondo.

La scala dei colori è fredda, ma al tempo stesso incantevole.

L’elemento distopico e drammaturgico viene rappresentato sia dall’assenza dei rapporti umani, sia dall’assenza del dialogo (infatti l’opera è per l’80% muta).

 

 

Il film si apre con una lunga carrellata su dei binari ferroviari, dove la velocità degli stessi va ad aumentare sempre di più, creando un senso di ansia nello spettatore.

La realtà che circonda le due protagoniste (il loro cuore palpita all’interno del vuoto), è intrisa di morte, che può non essere visivamente presente ma domina una natura che in altre circostanze potrebbe essere piacevolmente ammirata.

Ambientato in una foresta glaciale, algida, in un futuro non molto lontano, forse post nucleare, una donna (N) – interpretata da Monique Gosselin – guida il suo handcar lungo i binari.

Contrabbandiera insensibile e indurita dalla vita, accompagna una giovane donna pia (Awa) – interpretata da Nathalie Doummare il suo bambino attraverso il confine per metterli al sicuro.

Soffrendo il freddo e la fame, circondate da una terra inospitale, le due donne vedono le proprie convinzioni vacillare e si riuniscono in un profondo scambio emotivo.

Nel momento cruciale del film, Awa chiede «Non sei credente?» e N risponde: «Non ho ancora quella disperazione».

Il paesaggio interno del bosco è un territorio oscuro, misterioso, e pieno di insidie mentre l’ambiente che costeggia la ferrovia rappresenta la civiltà o il suo ultimo baluardo pur in uno stato militarizzato e controllato.

Allo spettatore vengono dati pochi elementi per capire che è in corso un conflitto di stampo balcanico, brutale, dove non solo sembra essersi perso ogni briciolo d’umanità ma l’appartenenza religiosa o etnica svolge un ruolo decisivo.

Il tema musicale rappresenta un focus importante: la musica non è composta da suoni, ma da rumori; per tutti i 101 minuti del film lo spettatore non avrà alcun riparo, nessun rifugio, né visuale, né tantomeno uditivo.

 

 

Un film, dove nei titoli di testa vengono presentati il cast e i credits (caso più unico che raro), che va oltre la storia, dove ritroviamo temi come l’isolamento e la religione, e dove lo sguardo è rivolto verso la cruda e pura realtà in cui non c’è spazio per l’armonia in un mondo non troppo lontano, forse.

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Da quando ne ho memoria, questi sono i miei più grandi amori: canto, teatro, lettura e cinema. Sono una Studentessa del Corso di laurea DAMS presso l’Università degli Studi di Messina. Appassionata di storia dell’arte, letteratura, storia, musica, fotografia e di mummie, il palcoscenico ha fatto parte della mia vita dall'età di 6 anni e da allora non l’ho più lasciato, in qualsiasi veste. Allieva Regista per la Summer School alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, amo scrivere, in particolar modo poesie e racconti. Pratico volontariato dall’età di 10 anni e Gagarin è la mia prima collaborazione di scrittura come aspirante critica cinematografica.