Desiderio febbrile in La collina dove ruggiscono le leonesse

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“Torni sempre qui, mentre noi vogliamo solo andarcene…”: come si riesce a dar voce ad una profonda sofferenza? Raccontandola, e filmandola in questo caso. Dopo l’anteprima al Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, e aver vinto sia il premio come Miglior Regista sia il Discovery Award per il miglior film d’esordio al 29° Raindance Film Festival, arriva in anteprima italiana alla 33esima edizione del Trieste Film Festival, l’opera della giovane franco-kosovara Luàna Bajrami: Luaneshat e kodrës (The hill where lionesses roar).

Da qualche parte in Kosovo, in un villaggio isolato, tre giovani donne vedono soffocare i loro sogni e le loro ambizioni. Nella loro ricerca di indipendenza, nulla può fermarle: è giunto il momento di far ruggire le leonesse. La regista, nota ai più per aver interpretato Sophie nel potente Portrait of a Lady on Fire, racconta, con cura e delicate pennellate, la condizione esistenziale delle tre protagoniste. “Questo luogo, questo Paese, il Kosovo, che mi affascina tanto, per molti adolescenti, e non solo, è una prigione…”. La stessa afferma che “questo tema è universale così ho voluto slegare il film da qualsiasi temporalità. Però ho scelto di ambientarlo in Kosovo”: in queste ultime parole della regista è già rintracciabile l’urgenza artistica che ha portato alla nascita dell’opera.

Le sue protagoniste, Qe (Flaka Latifi), Li (Era Balaj) e Jeta (Urate Shabani) sono tre ragazze che vivono a Pleshine. Le loro giornate sono fatte di attese. Attese e speranze di poter andare via, verso quell’Europa più sviluppata per loro così lontana.

 

 

Sperano in una selezione all’Università e passano i caldi pomeriggi estivi su una collina, testimone inanimata dei loro patimenti ma anche luogo destinato alle confessioni fra amiche e a quei pochi momenti di calma in una città che per il resto riserva violenza e frustrazione. L’occhio per i dettagli della regista esordiente è profondo e il direttore della fotografia Hugo Paturel, anch’egli al suo debutto nel lungometraggio, è altrettanto abile nel vedere le donne al centro del film di Bajrami: le sequenze buie come la pece sono accese per la massima comprensione, e una sequenza che ci vede “guardare” attraverso una finestra alla famiglia in rovina di Qe è facilmente uno degli scatti più emozionanti. Bajrami e Paturel amano anche inquadrare il cimitero locale attraverso la finestra rotta di una casa abbandonata e semifinita che le ragazze trasformano nel loro apparente quartier generale. Non è solo la morte che li chiama; è la storia della piccola città che logora ma dalla quale non possono sfuggire. La domanda è “Partire” o “restare”? Antropologicamente, è il dilemma che appartiene alla storia dell’umanità fin dall’antichità. La stanzialità e la fuga sono due volti dello stesso fenomeno. Accanto al diritto di migrare, di spostarsi, quasi sempre per costrizione, si può e si deve rivendicare il diritto complementare di poter restare e di sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati, comunque si configuri la propria “identità”. Collante di questo turbinio di emozioni è la musica di Aldo Shllaku, intensa, eseguita con estrema delicatezza, riesce a rapire il “sentire” dello spettatore. La collina, luogo in cui si riesce a sperare in un futuro migliore, diviene La collina dove ruggiscono le leonesse.

 

 

Le inquadrature sembrano bloccare la vita: soffermandosi sulla solitudine della piccola cittadina, l’effetto del fermo immagine, sono il linguaggio utilizzato da Bajrami per raccontare il senso di immobilità della provincia. Luoghi custodi dell’infanzia, degli affetti e delle relazioni personali, protettori di un insieme di usi e costumi incapsulati nel tempo, segno di un’identità che vuole resistere ad ogni costo. Con quella sorta di urlo baccanale, le “leonesse” infrangono la quarta parete e mostrano al mondo il loro desiderio febbrile di emancipazione. Vinicio Capossela ha cantato “E viene il tempo di partire, armadi cimiteri di appendini, parole scritte a mano, scritte in ogni dove… Col tempo tutto sembra migliore”. Alla tranquillità, al silenzio delle campagne, le protagoniste vogliono contrapporre la loro voce assordante. Ma l’urlo non basta, c’è bisogno di un riscatto reale. Un esordio davvero interessante, dove la regista si rivela egualmente capace anche dietro la macchina da presa. Avrà modo e tempo per definire meglio lo stile registico e narrativo che l’accompagnerà nella sua carriera, ma possiamo già affermare che è una giovane in fiamme del nuovo cinema europeo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire, qui ed ora, un mondo nuovo. Un’opera struggente e piena di pathos: un inno all’amore libero.

83 minuti difficili da dimenticare.

 

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Da quando ne ho memoria, questi sono i miei più grandi amori: canto, teatro, lettura e cinema. Sono una Studentessa del Corso di laurea DAMS presso l’Università degli Studi di Messina. Appassionata di storia dell’arte, letteratura, storia, musica, fotografia e di mummie, il palcoscenico ha fatto parte della mia vita dall'età di 6 anni e da allora non l’ho più lasciato, in qualsiasi veste. Allieva Regista per la Summer School alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, amo scrivere, in particolar modo poesie e racconti. Pratico volontariato dall’età di 10 anni e Gagarin è la mia prima collaborazione di scrittura come aspirante critica cinematografica.