Tra distruzione e costruzione: tre casi teatrali (e un accorato consiglio)

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È mezzanotte, sono appena tornato dal Teatro Alighieri di Ravenna.

Mosso da un sentimento d’urgenza, e gratitudine, scrivo nonostante la stanchezza.

Nell’epoca dei social, e della velocità, nessuno (o quasi) legge più nulla (o quasi), dunque lo dco subito: andate a vedere Le sedie di Ionesco nell’allestimento di Valerio Binasco con Michele Di Mauro e Federica Fracassi, è all’Alighieri di Ravenna fino a domenica 1 maggio. E poi in giro.

Fatevi un gran regalo, andate.

Detto questo, forte e chiaro, ora provo a motivarlo, e ad allargare appena un po’ il discorso, per chi avesse eventualmente voglia di continuare a leggere qui.

Lo faccio connettendomi ad altri due spettacoli visti nei giorni scorsi, che mi sembrano perfetti, assieme alle Sedie di questa sera, per un piccolo discorso su distruzione e costruzione.

Piccolo, giuro, anzi: minuscolo.

Che son temi smisurati, ed è passata mezzanotte, e anche domani si lavora.

E in ogni caso gli artisti in questione meriterebbero ben altri spazi, e pensieri. E alcuni di questi li hanno, eccome.

Nessuna pretesa di esaustività, sia chiaro, rispetto a due creazioni che più diverse fra loro non si potrebbe e una terza che sintetizza e rilancia alcune questioni delle prime due.

La prima: Tutto brucia di Motus.

La seconda: La rosa bianca di Compagnia Bella.

La terza: Le sedie, appunto.

Tra i pochi che leggeranno queste righe, scommetto che nessuno avrà visto tutti e tre questi spettacoli.

Il primo e il terzo, forse.

O solo il secondo.

Ma tutti e tre, non credo proprio.

Il primo e il terzo: artisti alla moda, premi, visibilità internazionale. Ambiente: intellettuale / alternativo / di sinistra (con le mille sfumature del caso).

Il secondo: una realtà minuscola, che si muove spesso in produzioni con e per le nuove generazioni. Ambiente: cattolico (con le mille sfumature del caso).

Senza far discorsi pesanti, che è comunque passata mezzanotte e domani si lavora, secondo me questo è un problema.

La settorializzazione, intendo.

Finanche il corporativismo: star vicino sempre e solo a ciò che è simile a sé.

Per facilità.

Per comodità.

Per convenienza.

Mi viene in mente, sarà la stanchezza, una lettura dei tempi del DAMS: La distinzione. Critica sociale del gusto, di Pierre Bourdieu. La tesi, in sintesi: le pratiche di apprezzamento e di consumo culturale sono determinate da network sociali pre-esistenti. Gli studi successivi arrivano a valutare vero anche l’esatto contrario: sono i diversi stili di consumo e apprezzamento culturale a generare le reti sociali. Cioè: abitiamo una società in cui il gusto si converte “all’istante” in forme di relazione tra individui, e il consumo culturale offre una base per interagire tra soggetti con interessi simili. Il gusto diventa un modo per costruire reti, insomma.

E quanto sarebbe invece salutare, e anti-narcisistico, e spiazzante incontrare ciò che è radicalmente altro da sé.

Innanzi tutto noi che ci si occupa di mondi (con le mille sfumature del caso) che dovrebbero aiutare ad allargarci.

E invece.

Tant’è.

 

ph Claudia Pajewski

 

Ma tornando alla pars destruens e alla pars construens a cui le suddette creazioni danno forma.

Motus assume a tema e, più radicalmente, a linguaggio, il post-tragedia, facendo divenire la scena il post(o) del dramma.

Fucsia e nero i colori con cui si apre il funereo paesaggio abitato da tre corpi-teatro ammalianti e scalcianti: la performer Silvia Calderoni, la danzatrice Stefania Tansini e la musicista e cantante Francesca Morello.

Intro tellurica di chitarra elettrica, rombi e tuoni, pianti, grida di animali, a dar corpo sonoro a una terra desolata, per dirla con Eliot, a un lamento infinito, per dirla con Silvia Calderoni / Ecuba.

Quel che appare ancor più radicale, in questa creazione, è la scelta linguistica di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande di rarefare fino al parossismo le variazioni, tematiche e/o ritmiche, che convenzionalmente fanno funzionare (verbo orrendo, ma in questo caso forse appropriato) uno spettacolo, per immergere lo spettatore in un fondo scuro di lenta, reiterata tragedia, che pare qui abdicare alla possibilità stessa di compiersi.

Infelicità senza desideri, si potrebbe dire con Peter Handke, se non fosse per l’invito ad andare che chiude questo spettacolo in cui, nomen omen, tutto brucia.

Analogamente, ancorché di segno diametralmente opposto, la parola che chiude La rosa bianca è libertà.

 

ph Romeo Pizzol

 

Lo spettacolo della forlivese Compagnia Bella intreccia lettura, recitazione, canto e musica dal vivo per raccontare la vicenda di un gruppo di giovani oppositori al nazismo.

Lo fa (il medium è il messaggio) accogliendo persone con età e competenze diverse e costruendo con e per loro un habitat, dunque un luogo di relazioni significanti, luminoso e accogliente.

«Mi piacerebbe parlarvi della quiete / di Agostino o recitarvi Goethe, / suonare Mozart per farvi intuire / che si può vivere a dispetto del male»: come non pensare a don Lorenzo Milani, ascoltando questo frammento nella saletta zeppa di attentissimi adolescenti, là dove -in una delle famose lettere, scriveva «Se la scoperta del male deve prendere tanto posto nella nostra vita da non saper più guardare con un sorriso divertito e affettuoso le cose buone che esistono nel mondo e nella Chiesa, allora meritava non scoprirlo».

È intriso di luminoso -ripeto con forza questo aggettivo- ottimismo della ragione, La rosa bianca: sideralmente distante da premi e mode, costituisce un esempio solido e rigoroso di teatro utile e confortevole, anti-elitario e democratico.

Ciò lo dicono la storia che con semplici, calde parole viene raccontata e soprattutto la varietà degli umani in scena.

Tra i molti artefici di quest’operina corale, desidero qui ringraziare e segnalare in primis Giampiero Pizzol, autore di un testo di visionaria geometria, il compositore Alessandro Nidi, per aver trasformato l’attitudine inclusiva in partitura musicale, Olimpia Pizzol, per il suo canto delicato e caldo, che riporta in voce la lezione di Daniela Piccari (presente, appunto, in voce), Laura Aguzzoni, per l’appassionato rigore della sua lettura, la giovane attrice Maria Mengozzi, che in scena è una luce e il percussionista Francesco Sparagi, per la faccia da cui, durante gli applausi finali, affiora prepotente la vita che sta prima e dopo, e che sfora ovunque.

 

 

Le sedie sintetizza, mescola e rilancia le parti a cui ho provato ad accennare in queste poche righe: una scenografia sghemba, da film espressionista, accoglie due figure di vecchi amanti che agiscono in un limine tra sfacelo e slancio, lirismo e dramma, cupezza e lievità, saggezza e nonsenso, naturalismo e stilizzazione, eloquio e afasia, comicità e tragedia.

Le due maschere, in e con grazia di contemplanti, abitano un luogo di fantasmi, li aspettano e accolgono.

Tra la distruzione, lo sfacelo di una casa à la Schwitters e la costruzione, ancorché precaria, di un cumulo di vecchie sedie che funge da serbatoio di azioni e visioni.

Alcuni suoni (sedie trascinate, chitarre) danno corpo a un immaginario ludico e smarginante, tra slanci ideali e attese inconsolabili.

Questo allestimento de Le sedie dona, a chi lo vuol cogliere, un vertiginoso affaccio sulla dimensione poetica (dunque creaturale) e linguisticamente delicata del possibile esistere, nel mondo strambo della scena et ultra.

Per concludere questo fin troppo accorato invito a perdersi nel folgorante, labirintico testo di Ionesco: la bravura dei due interpreti, che non è certo da ribadire, in questo caso risalta per piena disponibilità a mettersi al servizio di un dispositivo scenico minimale e al contempo barocco con mestiere e sicurezza dei propri mezzi espressivi, ma senza -come si dice in gergo- gigioneggiare.

Evviva l’arte viva.