Angélica Liddell, gruppo nanou e OvO: lampi da Napoli

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ph. Claudio Stanghellini

 

In questo articolo dirò: io.

Non si fa, no no, non si fa: son preferibili la prima persona plurale o la forma impersonale.

Invece.

Il posizionamento del soggetto guardante (e, in questo specifico minuscolo caso, scrivente) è questione piuttosto dibattuta, da un po’ di tempo.

L’effetto delle opere sugli spettatori, “l’opera dell’arte” direbbe qualcuno, è faccenda che dovrebbe interessare –anche se non sempre, ahinoi, accade- chi le opere produce.

Eccomi dunque a dire: io.

Sono a Napoli, per vedere una creazione di cui scriverò in altra occasione, presto.

Dall’ordinata e rassicurante Romagna, tuffarmi nel gran teatro del mondo che è questa città, già appena uscito dalla stazione ferroviaria di Napoli Centrale, è faccenda non di poco conto: c’è da inebriarsi di segni e materia, che arriva addosso con una forza e una vispezza del tutto travolgenti.

Cercare di non farmi investire o derubare. Fare in modo che la mia cagnolina Emma non mangi una delle mille schifezze sparse sul marciapiede. Provare a far entrare negli occhi le facce, i colori e i palazzi sgarrupati e nelle orecchie le voci, le lingue, gli accenti: il napoletano che fa salti e capriole, l’arabo che saltella, il tedesco che gratta e il francese che scivola.

Eccomi dunque in un luogo opportuno, per sintonia e furore, a dar conto di due creazioni in cui mi sono imbattuto nelle scorse settimane: Liebestod – El olor a sangre no se me quita de los ojos – Juan Belmonte di Angélica Liddell, visto al Teatro Arena del Sole di Bologna il 30 aprile e Canto Primo: Miasma – Arsura di gruppo nanou e OvO, incontrato il 20 maggio al Teatro Rasi di Ravenna.

Per mettermi a scrivere del primo spettacolo, visto ormai tre settimane fa, ho a lungo esitato: è stata per me -guardante seriale (e a volte un po’ disilluso)- un’esperienza talmente inaspettata, larga, radicale che mi sono per molti giorni domandato quale potesse essere una prospettiva capace di restituire pienamente, o almeno degnamente, la ricchezza di quanto incontrato.

Giunto a Napoli, l’innumerabile quantità di segni in cui ci si imbatte mi suggerisce: lascia perdere questa idea anche un po’ pretenziosa dell’omnicomprensività, cogli e racconta qualche frammento, nomina alcuni “istanti separati da intervalli”, si potrebbe dire con l’amato Calvino.

Eccomi, dunque, a dar conto per lampi di due creazioni certo diversissime ma accomunate da analogo porre al centro dell’accadimento artistico una materia carnosa, una domanda impastata di sangue e umori, e metterle in relazione con una forma minimale: un accostamento che crea salvifici cortocircuiti, che apre inaspettate prospettive.

Un po’ come un ordinato professorino del nord che si trova a camminare con la propria cagnetta tra i vicoli di Spaccanapoli: nascono sorprese, a volerle accogliere, si smuovono categorie dello sguardo e dunque del pensiero.

Lampi, dicevo.

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ph. Christophe Raynaud de Lage

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Liebestod

Amore (impossibile) e morte (anelata).

Il sipario si apre.

Un uomo barbuto e muscoloso tiene al guinzaglio una quantità di gattini.

Il sipario si chiude.

Il sipario si apre.

Lo stesso uomo è di fianco a un grande pannello rettangolare.

Il sipario si chiude.

Animalità e forma, organicismo e materia inanimata.

Il sipario si apre.

Testa di cavallo.

Il sipario si chiude.

Vino e pane: rito e teatro. Devo rileggere Turner, presto.

Una staccionata di legno delimita sul fondo lo spazio scenico, che diventa arena per toreare, metaforicamente e letteralmente.

AL seduta si taglia con una lametta le ginocchia e i dorsi delle mani: il suo sangue esce piano, certo vien da pensare a Gina Pane, all’arte come occasione estetica (leggi: opposto di anestetica) per accorgersi di sé in relazione all’altro da sé.

Urla, strepiti, AL si tira i capelli: come non pensare alla Abramović, alla sua domanda radicale su cosa sia oggi la bellezza che ci si aspetta da un’artista e da un’opera.

AL spezza il pane, si pulisce il sangue che le cola dalle ferite e lo mangia. Si inserisce nella vagina un fazzoletto e poi lo mostra al pubblico: provocare, nell’etimo, rimanda al “chiamare fuori”.

Entrano cinque uomini, ciascuno ha in braccio un bebè, lo mostra ad AL che sorride loro in maniera esagerata, affatto posticcia: non vi è consolazione possibile neanche in quell’incontro innocente.

Dall’alto cala un enorme schermo, su cui è proiettato (o stampato, non so) il volto di un vecchio.

Il tempo fugge, il tempo è un inganno.

Lo schermo si alza.

In scena sta ora un grande toro.

Finto.

AL asperge incenso: rito e teatro, ancora.

Le azioni sono interposte, e a volte accompagnate, da un fiume verbale presentato con veemenza e millimetrica precisione.

Desiderio d’amore frustrato, invettiva contro tutto e tutti (sé stessa, gli spettatori, i critici, gli artisti, …).

Consiglio appassionato: leggere e rileggere il folgorante testo dello spettacolo, seguito da due dense riflessioni di AL sul proprio lavoro, in Non devi far altro che morire nell’arena, a cura di Sergio Lo Gatto e Debora Pietrobono, Luca Sossella Editore, € 12. Vi sono furia e precisione, visioni e rigore, cultura e natura, Eros e Thanatos in queste precise, infuocate parole.

AL, corpo-teatro che fa tanto, e tutto con maestria, ma senza ostentazione: ha scritto e diretto, qui dice e canta e danza con una qualità rara, da officiante.

Suoni vocalici che creano mondi, che un po’ evoca e un po’ illustra, consegnati allo spettatore con l’irriducibilità di un fatto.

Tutto è fuori misura e al contempo chirurgico: questo è del tutto indimenticabile.

Con gesti decisi fa partire e interrompere le avvolgenti musiche: la finzione dichiara che si è nel regno della finzione (dentro e fuori la scena?).

È proprio in questo spazio di totale finzione che forse si cela il vero; è qui e solo qui che vedendo San Pietro non sommiamo le immagini mentali, ma rimandiamo alla percezione avvenuta nella realtà”: Luigi Ghirri che racconta il suo progetto fotografico all’Italia in Miniatura (in mostra a Reggio Emilia – l’ho visto poche ore prima di Liebestod, lo consiglio decisamente) risuona perfettamente con quello che accade in scena.

Appare un uomo in mutande, è privo di una gamba e di un braccio.

AL ha in mano un mazzo di fiori. Lo percuote violentemente sulla staccionata di legno, fino a ditruggerlo.

Nuova serie di scene staccate: tra immersione e messa in evidenza del dispositivo, Brecht docet.

Torna l’uomo in mutande, che le viene posto in grembo: Pietà.

Vestizione da torera, lei Isotta, il toro-Tristano è riverso a terra.

Sul finale entra un uomo africano in abiti tradizionali. Su una musica dal sapore zingaro lui balla con AL, fra sorrisi esagerati, larghissimi e posticci: non vi è consolazione possibile neanche in quell’incontro.

Una buona notizia, annunciata un paio di giorni fa: AL tornerà a Bologna, la prossima primavera. Io non vedo l’ora.

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ph. Elvio Maccheroni

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Canto Primo: Miasma – Arsura

Questo non mi era ancora capitato, in tanti anni di attività critica: in biglietteria assieme all’accredito stampa mi vengono consegnati dei tappi per le orecchie.

La serata si preannuncia croccante.

Gli OvO in proscenio, ai due lati del palco.

Un impasto sonoro rugginoso e greve.

Luci rosse, in mezzo un grande tappeto sbilenco.

Stefania Pedretti ha voce di ramarro, di drago o di qualche altra bestia. Tellurica: produce scosse e sommosse.

Bruno Dorella macina ritmo, scalzo, come un boscaiolo modifica la materia, ancorché sonora: la spezza, la taglia, la porge.

Lui ritmo e lei armonie, anche se distorte. Boati. Ruggiti.

Luci blu – rosse – blu – rosse: si torna nel principio, nel magma del cominciamento senza sfumature.

Da un angolo a fondoscena entra Rhuena Bracci, il volto celato da una stoffa. Indossa un’ampia tunica, maniche lunghe a celare anche le mani.

Si compensa la carnalità del corpo sonoro che ci inonda con una danza deprivata del sembiante, senza l’io che si presenta al mondo: fecondo paradosso.

Lentamente la Figura danzante guadagna la luce e il centro della scena. Mulinella gli arti flessuosi.

Si sta nell’origine, senza psicologismi: qui -fenomenologicamente- il colore è colore, il suono è suono, il ritmo è ritmo, la vocalità è vocalità, la danza è danza.

Ricominciare da capo, mettendo in millimetrico, paritetico equilibrio consistenze e linguaggi che più diversi non si può: per questo il progetto di gruppo nanou e OvO è prezioso, raro.

Non vi è preminenza di un elemento sugli altri: per la nostra consuetudine di guardanti occidentali già questa è una bella capriola.

La coreografia, qui, è articolazione di consistenze diverse. Dello stare. Di azioni basiche, geometrice: ruotare, attraversare, saltare di lato, perimetrare una porzione di spazio.

A tratti la Figura è sospinta a fondoscena dalla pulsazione sonora che ci e la pervade: c’è scontro di titani, davanti ai nostri occhi.

Si sta, chi sul palco e chi di fronte, immersi in un magma primordiale.

Si sta nell’origine.

Meglio: nella scaturigine.

Un atto creaturale, ancor più che creativo, è questo Canto Primo, che sarebbe potuto durare dieci minuti o dieci ore, a scandagliare la possibilità di un prima che ci faccia compagni, cioè persone che condividono il pane.

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ph. Michele Pascarella

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Per queste due forme radicali e letteralmente commoventi -che mi han fatto cioè muovere con loro e con il brulicante frastuono di Napoli che entra dalla finestra della stanza in cui sto in questo istante– dico grazie, io.

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