“Preghiamo affinché tutte le vite possano prosperare e ritrovare speranza nel domani nonostante le difficoltà dell’oggi”: i Cinesi antichi credevano che la qualità dell’arte non si misurasse solo in base alle abilità della persona, ma anche in base al suo stato mentale – più i vostri pensieri sono puri, più sarà pura la vostra arte, la vostra musica o la vostra danza.
Ed è con questa preghiera, necessaria, che lo spettatore, in attesa, entra dentro il film per incanalare il flusso dell’Universo.
Ma facciamo un passo indietro: è la Festa della Liberazione, il mio terzo giorno di Festival e raggiungo a piedi, tra una banda musicale, manifestanti e un furgone con un altoparlante che trasmette a tutto volume “Bella ciao”, il Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Presentato in anteprima mondiale all’Animation Is Film Festival di Los Angeles, ho avuto il piacere di visionare il film d’animazione I Am What I Am (Sono ciò che sono) diretto da Sun Haipeng, ospitato in European Première al 24esimo Far East Film Festival.
Definito dai media cinesi, in modo particolare dal China Film Art Research Center, il film d’animazione dell’anno, rappresenta un vero cambio di direzione nel cinema d’animazione cinese: un film “con i piedi per terra”, che trae ispirazione dalle persone comuni che lottano, giorno dopo giorno, per far accadere miracoli nella vita quotidiana.
I film d’animazione prodotti in Cina solitamente raccontano storie di fantasia o connesse a personaggi mitologici, mentre I Am What I am racconta la vicenda di tre adolescenti del Sud, lasciati al villaggio natale, Guangdong, dai genitori che sono emigrati a Canton, la più grande città costiera del sud della Cina, per riservare loro una vita migliore.
I tre sono un po’ abbandonati a loro stessi e vessati quotidianamente da un gruppo di bulli locali, ma dentro di loro hanno un sogno: imparare un’antica tradizione culturale, la Danza del Leone (Wu Shi Zi nella lingua del film, il mandarino). Una danza rituale, da non confondere con la Danza del Drago, che viene eseguita per celebrare ricorrenze importanti nel calendario cinese – ma ambientandola in un contesto contemporaneo e realistico, dove la tradizione convive con le tribolazioni della vita quotidiana.
Facciamo un piccolo tuffo nella Storia: i leoni non sono nativi della Cina, si pensa giunsero come racconto o leggenda attraverso la famosa Via della Seta. La Danza del Leone viene datata in corrispondenza della Dinastia Han (205-220 D.C.) e durante il culmine della Dinastia Tang (716-907 D.C.). Durante le successive dinastie gli imperatori nominarono queste maschere Pak Hai Soi Si (ovvero buona fortuna, o anche lunga vita) e da quel momento tutte le maschere delle danze folcloristiche ebbero forma di leone.
Ritorniamo al film: quando incontriamo il protagonista Ah Juan per la prima volta, lui (come noi) è sbalordito dalla potente abilità artistica di una compagnia di Danza del Leone. È una danza che richiede concentrazione, forza e grazia incredibili mentre indossano costumi elaborati e pesanti e la squadra che sembra pronta per la vittoria viene interrotta da un misterioso intruso. Segue un inseguimento e Ah Juan si ritrova improvvisamente a favorire la loro fuga. Si scopre che la nuova abile ballerina è una ragazza che porta il suo stesso nome e prima che scompaia di nuovo gli regala l’ornato copricapo di leone che indossava. Ah Juan trova scopo e determinazione attraverso l’incontro e raduna il suo gruppo di amici per formare la compagnia di Danza del Leone più improbabile del mondo. Ancora più improbabile è il mentore che cercano, Xian Yuqiang, una stella un tempo promettente nel mondo della danza che ora vive una vita molto diversa, lavorando come pescivendolo. Il gruppo così intraprende l’impossibile missione di prepararsi per la più grande competizione del paese, ma proprio quando il loro sogno sembra a portata di mano la dura realtà complica le cose. “Ricorda sempre: se sentirai riecheggiare nel cuore il ritmo del Tamburo, sarai forte come un leone feroce”. La danza, infatti, è accompagnata da un sottofondo musicale che prevede un tamburo, molto importante in tutta la rappresentazione perché scandisce il ritmo ed impone i movimenti che il leone dovrà eseguire, due piatti ed il gong.
Vent’anni fa, un film che potesse sembrare I Am What I Am non poteva esistere. Anche dieci anni fa, sarebbe stato eccessivamente costoso: un risultato visivo che solo una produzione Pixar da 200 milioni di dollari poteva portare a termine in modo efficace.
Riuscendo a coniugare in modo esemplare tre elementi (animazione d’avanguardia, tema culturalmente rilevante ed estetica neo-realista), ciò che rende I Am What I Am decisamente innovativo è che si tratta di una produzione indipendente a basso budget.
In Cina ha riscontrato qualche critica iniziale, sollevata per il design degli occhi particolarmente piccoli dei personaggi, denunciando una forma di razzismo interiorizzato di epoca coloniale, scatenando il tam tam dei fan pronti a difendere il film, mentre il produttore Zhang Miao spiegava il design degli occhi come un’idea differenziarsi dall’animazione giapponese e americana dai tipici occhi grandi, puntando a uno stile più realistico.
Verso il finale, in uno dei momenti più belli, viene anche omaggiato il compositore Giacomo Puccini col brano Nessun Dorma, tratto dall’opera lirica Turandot.
Nonostante il senso generale della storia sia ovvio – la Danza del Leone non è solo una tradizione venerata ma anche mezzo di riscatto sociale e di auto-affermazione – il finale del film non è scontato ed anche se lo fosse non avrebbe importanza perché è impossibile rimanere indifferenti di fronte ai 104 minuti di un capolavoro, che rimane dentro il cuore e scalda l’anima quando fa freddo.
Preparate i fazzoletti perché “Ogni cosa, nel suo essere, serve a qualcosa” e apritevi per stare in ascolto… “Senti un ruggito nel cuore? Sii fiero come un leone!”.