Le (s)composizioni del Festival Opera Prima

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Azul Teatro - ph Loris Slaviero

 

Tra le molte possibili prospettive da cui guardare (e restituire, ancorché a frammenti) le proteiformi creazioni incontrate a Opera Prima 2022 il 16 e 17 giugno, nonché la macro-creazione costituita dal Festival stesso, sembra a noi plausibile adottarne una che metta in primo piano un elemento fondante di ogni proposizione, teatrale e non: il rapporto dialettico e sempre mobile tra la composizione ed il suo, almeno in termini generici, opposto.

Due minuscole premesse.

La prima. Tale prospettiva, ça va sans dire, non vuole né può esaurire i molti significanti e significati delle opere e dell’Opera: è semplicemente funzionale a orientare il nostro piccolo discorso.

La seconda. Come di consueto, cercheremo di evidenziare, anche se parzialmente, alcune dinamiche di relazione messe in moto da quanto incontrato, al di là di ogni giudizio e, tanto meno, di qualsivoglia gusto personale.

 

Azul Teatro – ph Loris Slaviero

 

Nel parco Alexander Langer, nella prima periferia di Rovigo, Azul Teatro ha proseguito la propria pluriennale ricerca (nomen omen: Sentieri), mettendo in cammino un manipolo di spettatori tra boscaglie e ruderi, componendo un percorso della durata di 45 minuti circa che problematizza sensibilmente (ovvero: mediante i sensi) il binomio natura-cultura.

Alcune figure umane abitano questo luogo, in limine tra città e terzo paesaggio, realizzando piccole azioni (coreografiche e/o vocaliche) oppure offrendosi immobili allo sguardo, senza quasi mai mostrare il proprio volto.

Come si sa, il viso è comunemente considerato l’elemento centrale dell’espressione umana, è ciò che muta l’uomo (o la donna) in personae. Celarlo reiteratamente, dunque, manifesta l’intenzione di eliminare dal corpo l’impronta dell’individuo, la sua haecceitas. È un gesto, si potrebbe dire parafrasando Luce Irigaray, che avvicina allontanando, spiritualizza incarnando, individualizza universalizzando.

Una pianta o un animale, a meno che non siano grottescamente ammaestrati, non si mostrano: semplicemente sono.

D’altro canto, in una condizione di rappresentazione, l’umano non può che costituire innanzitutto un dato culturale. Qualsiasi cosa faccia o dica danno luogo a significanti e significati che non possono non essere ricevuti, appunto, culturalmente.

Natura-cultura: libri aperti tra i rami, disseminati lungo tutto il percorso, come i sassolini della celebre fiaba aiutano a perdersi, o a ritrovarsi.

Meglio: a (dis)orientarsi, che è pratica sempre salutare, qualunque forma assuma.

Appena possibile torneremo a incontrare, sulla pagina o meglio nello spazio, la rigorosa e luminosa ricerca di Serena Gatti e compagni.

 

Bassam Abou Diab – ph Loris Slaviero

 

Il danzatore libanese Bassam Abou Diab compone una partitura che mette in relazione Oriente e Occidente.

Il punto di partenza è affatto peculiare: l’esperienza del corpo in situazioni e luoghi di guerra.

Quali tecniche somatiche occorre porre in essere per sopravvivere alle bombe?

Under the flesh, questo il titolo della performance proposta al Festival, si costituisce di dimostrazioni coreutiche dinamiche, intrise di vocalizzi e fin troppo ammiccanti racconti.

Al di là di un ben maggiore rigore compositivo e registico che certo gioverebbe a una proposizione che assume un punto di partenza peculiare e di assoluto interesse e il cui interprete dimostra grande maestria nella tradizione coreutica a cui dà corpo, ai fini del nostro piccolo discorso pare interessante evidenziare come questa creazione metta in luce il rapporto compositivo -dunque linguistico- tra sé e ciò che è altro da sé, tra ciò che è sotto il nostro controllo e ciò che ci travalica e prescinde.

Come è possibile (giacché auspicabile) arrendersi alle forze?

Vien da pensare a I mediatori (1985), saggio in cui Gilles Deleuze si occupa del movimento nelle discipline sportive.

Tradizionalmente la nostra concezione del movimento pone all’origine l’individuo.

Si pensi alla corsa, al lancio del giavellotto o al lancio del peso: l’essere umano è sempre il punto di partenza, la sorgente dell’energia, il creatore di potenza e slancio.

Il celebre filosofo riflette su discipline come il surf, il windsurf o il deltaplano: sport caratterizzati dall’inserirsi all’interno di un’onda preesistente.

L’individuo, non più l’unica scaturigine del movimento, deve cercare di porsi in ascolto, dialogo e relazione con forze che lo trascendono, per raggiungere luoghi altrimenti inavvicinabili.

O per sopravvivere alle bombe.

Una concezione, si badi bene, che solo una rigorosa perizia coreografica e/o interpretativa può mettere al riparo da qualsivoglia deriva spontaneistica, da qualsiasi rischio di apparente, paradossale dilettantismo.

 

Teatro del Lemming

 

Da molti anni seguiamo in giro per l’Italia il lavoro di Teatro del Lemming e del suo regista Massimo Munaro.

Da tempo ne apprezziamo le rigorose visioni.

Questo Amleto, creato una decina di anni fa e ora ri-allestito, ci ha particolarmente folgorato e commosso, nel senso letterale di averci fatto muovere (ancorché seduti in platea, al contrario di diverse altre opere dell’ensemble in cui lo spettatore, da solo o in piccoli gruppi è letteralmente messo in cammino, in movimento) insieme a otto straordinari interpreti: Fiorella Tommasini, Chiara Elisa Rossini, Alessio Papa, Diana Ferrantini, Alessandro Sanmartin, Katia Raguso, Marina Carluccio e Chiara Ferronato.

Il primo elemento che salta agli occhi (e alle orecchie) in questo Amleto è la sapienza di Munaro nel comporre -ancora- i pieni e i vuoti (nello spazio, tra i corpi), i silenzi e le molte voci, il buio e le piccole luci, il testo come dialogo di entità semantiche e vocaliche.

Le scene si susseguono più per variazioni di consistenza che per articolazione diegetica, come a dar corpo e spazio, azzardiamo, a intuizioni piuttosto che a un metodo predefinito, cercando di far affiorare temi archetipici attraverso il meta-teatro: si è pienamente, esplicitamente nel territorio della finzione, qui, la lingua teatrale è il medium attraverso cui il rito si può compiere.

Attraverso il quale ci può, forse, salvare.

“Non avete battute, voi”, dice al pubblico, compassionevole, la straordinaria Ofelia: c’è una siderale solitudine in queste figure che assieme si agitano e vivono passioni di cartapesta, è commovente il loro affidarsi alla finzione del teatro, come un naufrago a un salvagente.

Vien da pensare a Beckett, là dove scriveva che l’attore è un piccolo pieno dentro a un grande vuoto.

Di tutti e di ciascuno.

 

Giselda Ranieri – ph Loris Slaviero

 

Compone cineticamente le relazioni tra una piazza centrale della città, i suoi più o meno occasionali frequentatori e la proposizione artistica Blind Date di Giselda Ranieri, performance di improvvisazione in cui la talentuosa coreografa e danzatrice di “casa” ALDES (che significa, lo accenniamo per i non addetti ai lavori, danza che si affaccia senza posa sul mondo, sideralmente distante dall’idea romantica di arte come combattimento solitario con i propri fantasmi per addivenire alla creazione di un’opera, quale essa sia).

Blind Date, che programmaticamente prevede il realizzarsi dell’accadimento scenico insieme a un musicista mai incontrato prima, a Rovigo ha fatto co-creare Giselda Ranieri con il batterista Iarin Munari.

L’improvvisazione, o meglio la creazione istantanea, in linea di principio non è cosa possibile: è più opportuno parlare di composizione -ancora- istantanea: ciascuno pesca all’improvviso, come molti secoli fa ci hanno insegnato i Commedianti dell’Arte, dal proprio più o meno vasto repertorio, scegliendo e componendo all’istante gli elementi ritenuti più adatti a un dato contesto.

È dunque, come si diceva, questione di ascolto.

In questo senso la performance di Giselda Ranieri ha avuto un’articolazione esemplare, che ci sarebbe piaciuto verificare in un terzo passaggio.

Spieghiamo.

Il Blind Date rovigotto si è composto essenzialmente di due parti tutto sommato prevedibili (ancorché gestite con maestria, ma come detto in apertura di queste righe non siamo qui a dar giudizi di merito): una prima sezione in cui l’artista si è presentata al pubblico e in maniera affatto muscolare, scattante, estroflessa ha fatto vedere un po’ del tanto di cui è capace (come non pensare a Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, e la suo celebre Autoritratto entro uno specchio convesso del 1524, sorta di biglietto da visita utilizzato dall’artista per mostrare a potenziali committenti le sue competenze pittoriche?), seguita da una seconda parte in cui gli artisti con grazia e intelligenza hanno dato spazio e incanalato la gioia coreutica che il loro fare aveva messo in moto, dando luogo a una vigorosa danza collettiva che ha coinvolto persone di ogni età.

Cosa sarebbe seguito, dal punto di vista compositivo?

Quale campo largo, eventualmente inaspettato, si sarebbe potuto abitare?

 

Cantiere Artaud – ph Loris Slaviero

 

Cantiere Artaud, giovane collettivo di ricerca teatrale fondato ad Arezzo nel 2016 da Sara Bonci e Ciro Gallorano, ha presentato in prima nazionale Il volto di Karin, creazione in cui è evidente una grazia compositiva raffinata ed eloquente, che affronta il macro-tema del passare del tempo declinandolo nei tópos della vecchiaia, della morte, dei ricordi e facendolo divenire, correttamente, pura forma: linguaggio.

Una ridda di misurate invenzioni sceniche danno alla visione una cornice al contempo rassicurante e straniante, in cui maschere mute si muovono in un ambiente dal sapore vittoriano come fantasmi, termine qui usato nell’accezione di figure in cui convivono diverse consistenze e opposti stati dell’essere.

Non c’entra il mimo, nel loro mutismo, vi sono piuttosto una solitudine e un’orfananza che le rendono senza tempo, universali.

Azzardiamo: Il volto di Katrin trova un esplicito riferimento nel mondo poetico e segnico dell’artista Alessandro Serra.

L’augurio è che, quando il tempo sarà maturo, questo talentuoso ensemble possa, artisticamente, uccidere il padre e trovare pienamente una propria voce.

 

Ascanio Celestini – ph Loris Slaviero

 

Ascanio Celestini ha presentato Radio clandestina a Opera Prima vent’anni dopo aver debuttato con tale spettacolo proprio in quel Festival.

Appare del tutto pleonastico aggiungere parole al lavoro del celeberrimo artista romano.

Ai fini del nostro piccolo discorso desideriamo unicamente sottolineare il gesto curatoriale di questo nuovo invito, di questo ritorno, per di più inserito in calendario subito dopo il debutto di un giovane ensemble.

Inoltre: uno spettacolo zeppo di parole, che si e ci colloca in un preciso momento storico, a fianco di uno spettacolo muto e a suo modo a-temporale.

Ci vuole sapienza, a concepire e comporre un programma così.

E fiducia nell’arte temporale ed eterna del teatro.

Ci vogliono visioni.