Abissi della memoria: ricordi e verità relative

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Ricordi? di Valerio Mieli

Giocare con la mente, con le patologie mentali o semplicemente con il suo classico ma complicato funzionamento è un esercizio stimolante non solo per i registi ma anche per il pubblico. Narrazioni complesse, narratori non attendibili: il mistero della verità e della definizione di realtà intriga tanto chi gira quanto chi guarda.

Dalla narrazione psicologicamente distorta di Spider di Cronenberg, vorrei volare in Italia, diversi anni dopo, con Ricordi? (2019) di Valerio Mieli. Lui (Luca Marinelli) e Lei (Linda Caridi) si incontrano ad una festa e si innamorano: lui è il tipico bello e tenebroso, lei la ragazza sempre allegra e positiva. I due sembrano completarsi e condividere una sorta di ossessione per i ricordi, al punto che il ripercorrere momenti del passato si trasforma anche in un gioco erotico. Almeno fino a quanto qualcosa tra i due si spezza. Un dramma romantico che racconta non tanto la nascita e la fine di una storia d’amore, quanto il suo ricordo e il modo in cui i due protagonisti l’hanno vissuta. Più che una teorizzazione sull’amore infatti, il film appare come una sorta di saggio sul funzionamento della memoria umana: “Il ricordo mente”, afferma il protagonista. E così un po’ anche i suoi narratori e dunque il film stesso.

Per le tematiche, il film di Mieli può ricordare un’altra famosa commedia romantica, 500 giorni insieme (2009) di Marc Webb: anche in questo caso una serie di flash scombinati racconta la storia d’amore tra Tom e Sole. La differenza risiede però nell’aspetto stilistico: se Webb alterna i ricordi, singoli e distinti, a cartelli numerati che aiutano lo spettatore a ricostruire l’ordine cronologico degli eventi, Mieli rende tutto più confuso e caotico, moltiplicando e duplicando i ricordi cosicché lo spettatore si trova più volte davanti alla stessa scena, lo stesso ricordo, ma visto in maniera differente. Quale sia la verità è difficile definirlo. Forse – sembra suggerire il regista – perché la verità dipende, per la maggior parte delle volte, dai punti di vista.

Altrettanto difficile da definire è però proprio questo punto di vista: ci si aspetterebbe infatti di trovarsi di fronte a una sovrabbondanza di inquadrature soggettive, che mostrano quindi ciò che i protagonisti stanno guardando, mentre invece Ricordi? gioca principalmente con la falsa soggettiva, facendo entrare nel campo il soggetto cui si presuppone appartenga la visione. Si introduce così uno sguardo esterno, oggettivo, che contrasta con l’intera soggettività con cui è condotto il racconto. È proprio questa oggettività del punto di vista a conferire al film quella forma di saggio sul funzionamento della memoria umana. In particolare, il film non teorizza solo l’inattendibilità dei ricordi, ma anche il loro influenzarsi e confondersi a vicenda: la sensazione è spesso quella di trovarsi in un ricordo dentro un ricordo, con la musica o i rumori di sottofondo che da una scena permangono in quella successiva, nonostante sia scomparsa la fonte che li genera. Inoltre, i flash improvvisi testimoniano non solo l’affiorare sconnesso e repentino dei ricordi, ma suggeriscono anche una teorizzazione sull’essere umano che, in ogni momento della sua vita, è la compresenza del suo passato, del suo presente e delle sue aspirazioni future. Se questi ricordi si potessero immagazzinare da qualche parte, dicono i protagonisti, nulla andrebbe perduto. Sarebbe bello, o forse no. A volte desideriamo ardentemente dimenticare, come ci ricorda il capolavoro di Michel Gondry Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004), a cui indubbiamente Mieli si è ispirato per il suo lungometraggio.

La soggettività del racconto invece, più che dal punto di vista, emerge dalla duplicazione dei ricordi uguali ma diversi e dalla scelta cromatica. Quest’ultima infatti è particolarmente studiata per permettere di far parlare le emozioni attraverso i colori: più i ricordi si fanno felici più le tinte divengono calde, più si precipita nel dramma e nella tristezza più la palette diviene fredda. In parte, questa distinzione tra tinte calde e fredde identifica anche l’autore del ricordo: caldo per lei, freddo per lui. Ma questo è vero solo fino a quando i due non cominciano a influenzarsi reciprocamente con la propria tristezza e euforia e allora le cose si fanno confuse. Il gioco emotivo dei colori diviene esplicito verso il finale, quando le note musicali di una colonna sonora ricorrente si trasformano sullo schermo in un grafico-spartito a pallini colorati, che si alterna a una raffica di immagini di ricordi disordinati. Con questo espediente il regista mette in scena una teoria cinematografica, secondo la quale le emozioni passano attraverso la musica e i colori e giungono allo spettatore. A questi due elementi, aggiungerei anche il montaggio, particolarmente curato in questo film, che marca le emozioni alternando momenti più lenti ad altri più frenetici. Così Ricordi?, oltre ad essere un saggio sul funzionamento della memoria, introduce anche quell’elemento metacinematografico che lo rende un piccolo saggio sul cinema stesso.

Rashomon di Akira Kurosawa

Se il film di Mieli racconta la naturale e involontaria distorsione dei ricordi per mezzo dei meccanismi della memoria, non si può negare che talvolta entrino in gioco elementi volontari che ci inducono a stravolgere le nostre versioni della realtà. È quanto raccontato in Rashōmon da Akira Kurosawa, pellicola imprescindibile della storia del cinema. È un bel salto quello che si sta per compiere, perché dal 2019 si torna indietro al 1950 e dall’Italia si vola in Giappone, con tutto quello che ne consegue narrativamente e stilisticamente parlando. L’originalità e la profondità di Rashōmon non gli hanno concesso “solamente” di essere premiato al Festival di Venezia del 1951, ma anche di portare a casa l’Oscar al miglior film straniero nello stesso anno, segnando così un grande traguardo per la storia del cinema: l’entrata della cinematografia giapponese nel mondo occidentale.

Tormentati da un diluvio incessante, tre uomini trovano riparo sotto la porta della città: il boscaiolo e il monaco appaiono scossi da una terribile vicenda che si accingono a raccontare al ladro che li ha raggiunti. Quale sia la verità dietro la tragedia è difficile a dirsi: ciò che è certo è che un samurai ha trovato la morte in un bosco e che sua moglie è stata violentata da un bandito. Chi sia il colpevole dell’omicidio è impossibile da definire. Il bandito, la moglie del samurai, il samurai stesso per mezzo di una maga, ed infine il boscaiolo raccontano quatto versioni differenti della stessa storia, davanti a un tribunale i cui giudici sono gli spettatori al di là della finzione. Infatti, i diversi narratori, tutti inattendibili, parlano inginocchiati davanti alla macchina da presa, sfondando spesso con lo sguardo la quarta parete e rispondendo a domande in realtà mai poste. Sono le risposte ai quesiti di uno spettatore qualsiasi che, davanti allo schermo, segue intrigato il giallo che Kurosawa ha intessuto per lui.

Una storia dunque, quattro punti di vista differenti, ognuno verosimile, ognuno custode di una parte della verità. La certezza di quale sia effettivamente la corretta versione Kurosawa non la offre, lasciando il suo spettatore in balia di quattro diverse versioni, libero di scegliere a quale credere e altrettanto libero di costruirsene una quinta che, quale giudice, determina sulla base degli elementi forniti dai testimoni. Il regista, più che dare una risposta al giallo da lui creato, si concentra nel tratteggiare il ritratto dell’essere umano: mentiamo perché siamo deboli, afferma il monaco, e prima che agli altri mentiamo a noi stessi, costruendo un’immagine di noi che ci sia più sopportabile, che ci soddisfi di più di quello che siamo in realtà. È un meccanismo in verità a metà strada tra il volontario e l’involontario: l’uomo mente per poter accettare meglio se stesso.

Giocare con la mente, giocare col racconto e giocare con lo spettatore: sono queste le tre dimensioni messe in campo dai titoli citati, seppur ognuno in maniera differente. In modo altrettanto diverso, ciascun film porta sul grande schermo la teoria del relativismo, della distorsione e manipolazione della realtà, della moltiplicazione dei punti di vista, della verità impossibile. Così facendo essi offrono un ritratto del mondo, dell’essere umano che lo abita e del suo vivere, approcciarsi e interpretare la realtà che lo circonda.