WAM! e le sue contraddizioni. Intervista a Valentina Caggio

0
7

 

Torna a Faenza, dal 22 al 24 luglio, WAM! Festival. La decima edizione, come sempre dedicata alle arti performative contemporanee, ha per titolo-tema Contraddizioni. Ne abbiamo parlato con Valentina Caggio, parte della Direzione Artistica del Festival.

Nel vocabolario Treccani, la parola contraddizione è definita “tendenza abituale e ostinata a contraddire, senza motivo apparente, ciò che altri afferma”. Quale ragione vi ha portato a dare questo titolo-tema all’edizione 2022? E quale ostinazione vi spinge a proseguire in un’impresa donchisciottamente altra rispetto a ciò che il mondo afferma?

“Gli ultimi anni ci siamo concentrati sul tema della cura, prima ancora del Covid, come necessario legame tra noi umani. Il mito della cura ripreso in Essere e Tempo di Heidegger evoca in questa antropogonia come la Cura sia il legame tra le persone e le tenga unite socialmente agli altri e psichicamente integre.

Noi siamo veramente interessati a quest’aspetto… e poi … non ci siamo ancora ripresi dagli effetti drammatici della pandemia, scorgiamo possibili scenari vagamente ottimistici e irrompe l’ennesima guerra, il continuo scioglimento dei ghiacci, la deforestazione, facendoci calare nuovamente nello sconforto. Ha senso l’azione? Proporre un festival? Continuare a fare e produrre arte in un contesto che pare un’apocalisse? Siamo in crisi perenne.

Noi della Direzione Artistica ci siamo trovati a contraddirci l’un l’altro: alcuni sentivano un senso di profonda impotenza, come se fosse tutto vano, come se ormai, dinanzi alla fine del nostro mondo, non ci restasse che abbandonarci ad una lenta deriva; dinanzi all’inevitabilità, non ci restasse che arrenderci. Altri pensavano che fosse ancora più necessario organizzare un festival in questo tempo, decidendo di sostenere artisti che proponessero partecipazione, esperienze condivise, speranza, energia, ricerca, sostenibilità, desiderio di appartenenza e socialità, celebrando la danza come rituale collettivo.

Siamo stati settimane a condividere le nostre riflessioni, dicendo tutto e il contrario di tutto, interrogandoci senza trovare certezze, basi solide, porti sicuri, risposte a questo tutto così complesso in cui siamo immersi.  Abbiamo pensato quindi di far esplodere le contraddizioni che noi sentivamo, i controsensi che in prima persona avvertivamo, gli spaesamenti che ci attraversavano.

Con quel nodo di angoscia soffocante che ci assale quando osiamo pensare che è l’ultima volta che ripetiamo un gesto, una frase, uno sguardo, un incontro.  Qui ed ora. Senza via di fuga né di salvezza. A bocca aperta, dinanzi al vuoto che si spalanca e ci inghiotte con l’euforia della possibilità, con la potenza dell’azione del qui ed ora, valorizzandone fino in fondo l’importanza di vivere pienamente l’esperienza, come se potesse essere l’ultima volta. Ad occhi aperti con meraviglia, passione drammatica per eccellenza che sarà via per vincere la paura e disporsi a un diverso sentire.

L’ostinazione che ci spinge a continuare a pensare a programmare un festival è la fortuna di esserci, fenomenologicamente intesa. Possiamo decidere e scegliere chi potremmo essere e questo ci definisce, ci proietta nel futuro. Insieme agli altri”.

 

ph Petru Cojocaru Ziua

 

Decima edizione: dal vostro punto di osserv-azione come è evoluta in questi anni la ricezione delle proposte performative contemporanee, a volte ostiche o comunque spesso distanti dalla comune idea di bello?

“Negli anni, abbiamo sempre cercato di avvicinare il pubblico: incontri con gli artisti, eventi partecipati fatti con le persone, inclusione di tanti giovani delle scuole superiori e delle scuole di danza. Certo l’alfabetizzazione ai linguaggi del contemporaneo non è lineare né conquistata, ma viviamo in una regione ricca di teatro, di ricerca, di persone curiose. Evoluta la ricezione delle proposte? Non sapremmo rispondere, l’anno scorso abbiamo provato a studiare i feedback delle persone partecipanti, dopo che avevano compilato questionari e interviste: le risposte le più varie, non ci sono fili conduttori che aiutino nel comporre un qualche tratto identitario del pubblico. Nelle diverse edizioni della rassegna abbiamo sempre cercato di proporre tanti punti di vista differenti, mai cifre stilistiche comuni, rivolti a tutti i cittadini e non solo agli “addetti ai lavori” (per cui forse, le traiettorie di senso di ciò che stavano guardando, erano più riconoscibili) e il riscontro è stato quasi sempre positivo, qualcosa di emozionante, di spiazzante a volte, di interessante a livello riflessivo o estetico”.

Da sempre avete un focus specifico sull’inclusione e la partecipazione attiva dei cittadini. Come ciò si realizza, nell’edizione 2022 del Festival? E quali soprese ha finora portato, in tal senso, il lavoro di quest’anno?

“Guardiamo la programmazione. Windows: due lunghissime performance di Conti e Pilbeam in un centro commerciale, entriamo in un luogo frequentatissimo, che per definizione è di passaggio e di sguardo veloce poco attento e frequentato dalle masse. Vogliamo sfatare pregiudizi e crediamo che l’arte sia uno strumento portentoso per farlo.

Proseguiamo con i laboratori, pensati per tutti, a prescindere da età, speciali abilità o diversi livelli di frequentazione con la danza, il proprio corpo ecc. i docenti: Silvia Gribaudi, Laura Moro, Franca Zagatti, Marco Chenevier e la compagnia Iris promuovono una visione plurale e inclusiva della performance, tutti interessati a lavorare con ogni persona, con le caratteristiche peculiari di ogni individuo e creare una sinfonia insieme dalle più diverse esperienze.

La sorpresa è stata la partecipazione delle persone, sono sempre le persone. La ricchezza che ognuno apporta nella condivisione con gli altri. La conferma è l’interesse di grandissimi professionisti a lavorare con tutti, con umiltà, rilevando una grande umanità”.

Per celebrare il decennale, tutti gli spettacoli saranno gratuiti e molti interventi saranno in forma di laboratorio gratuito aperto a tutti/e. Per trasparenza e a favore di chi è fuori dalle logiche del sistema italiano delle arti dal vivo: come sostenete il vostro lavoro, dal punto di vista economico?

“Viene sostenuto grazie al volontariato di molti, a tanti privati che credono nel nostro lavoro, alle politiche culturali e sociali del territorio; dato che in questi anni abbiamo portato in città tantissimi artisti anche internazionali e creato molte occasioni di aggregazione e socializzazione. La gratuità per il pubblico vuole essere un dono, come ci ricorda l’antropologo Mauss, per creare relazioni e legami”.

 

 

La Compagnie Les 3 Plumes dialogherà con i gloriosi Musicanti di San Crispino: cosa possiamo aspettarci? E quale percorso ha portato a questo incontro?

“Ci aspettiamo faville! Energia e risate. I Musicanti dicono che la loro specialità è l’irruzione e la coralità, cosa che fanno anche Les 3 Plumes. Irrompono negli spazi abitati dalle persone e li trasformano: i musici sono sedici, i danzatori tre ma coinvolgono tutti. Ci aspettiamo un’esplosione vulcanica.

Da tanti anni volevamo a WAM! Chenevier (Les 3 Plumes), ma non avevamo trovato ancora la formula giusta. e avevamo sognato Alain Platel con uno spettacolo per bande.

Les 3 Plumes vogliono lavorare nello spazio pubblico, incontrando le persone, dialogando con gruppi eterogenei di cittadini, con la loro sapienza riescono a condividere modalità improvvisative e coreografiche con tutti, anche dopo poche ore di laboratorio e questo è quello che faranno a Faenza. I tre momenti di laboratorio sono aperti a chiunque e già azioni performative per chi osserva. La ricerca della compagnia italo-francese in questo periodo va nella direzione dell’incontro con la diversità, le differenti abilità, lo sperimentare e il coreografare non solo con corpi di professionisti, ricordiamo ad esempio che uno dei tre laboratori è pensato per le famiglie ucraine presenti in città. Era un desiderio di Chenevier lavorare con una banda e voilà! WAM gliel’ha trovata, una possibilità per i danzatori di confrontarsi con questa formazione musicale e un’opportunità per i musicisti, che sono estremamente performativi di incontrare questi eccezionali danzatori e quello che riusciranno ad inventarsi in questo teatro delle piazze e delle strade faentine”.

A proposito di anniversari: i Canti Orfici di Dino Campana, la cui biografia è certo legata al vostro territorio, saranno messi in voce da Carmelo Bene, a vent’anni dalla morte, in un’installazione alla Chiesa di Santa Maria dell’Angelo a Faenza. Il vostro Festival è principalmente centrato sui linguaggi del corpo: quale fisicità si potrà percepire, incontrando quest’opera?

“Un’installazione sonora all’interno di un festival di danza può sembrare una contraddizione in termini, tanto per rimanere in linea con il tema di questa edizione. Apparentemente, non c’è nessuna fisicità visibile e tangibile nei Canti Orfici di Dino Campana e Carmelo Bene, ma si tratta solo di un’assenza – tanto per usare un termine molto caro al maestro di Campi Salentina – che rievoca una presenza: il corpo non esiste in quanto soma perché deflagrato nell’esperienza dell’oralità pura, fatto esplodere in miliardi di cellule di cui resta come un’eco lontana. La contraddizione iniziale allora è solo apparente e l’esperienza di Carmelo Bene sulla phonè – che con i Canti Orfici di Campana trova uno dei suoi massimi apici – si inserisce di diritto tra le grandi avanguardie contemporanee che concepiscono il corpo come strumento del performer e mai fine ultimo dell’opera, e come tale destinato a “bruciare” come amava ripetere Grotowski, cioè trasformare la sua matericità in energia pura, vibrazione, movimento. E che cos’è la voce se non vibrazione pura?”.

In generale, con quale attitudine è bene avvicinarsi alle proposte del Festival?

“Apertura, gioco, lasciarsi spaesare e trasportare, sperimentare in prima persona, partecipare”.

Infine, e per rilanciare, raccontaci un desiderio, per i prossimi dieci anni di WAM!

“Un desiderio è sicuramente far tornare tanti degli artisti stranieri che sono venuti nelle passate edizioni: ad esempio i Fakers Club, Stephanie Miracle e Petra Hrascanec.

Un altro desiderio è avere la possibilità di pensare progetti decennali e non, come negli ultimi anni accade, dover rivedere e ripensare il lavoro in continuazione”.