Complici nella lotta. Come ti divento femminista? #1

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Vittorina Sambri, campionessa di motociclismo italiana, 1913

 

Complici nella lotta si presenta diviso in due parti, e sarà comunque una corsa a perdifiato attraverso quegli oggetti strani chiamati femminismi. Lascerà molte cose indietro, a tratti non potremo che dimenticare il paesaggio, ma dobbiamo essere ben consci che il suo obiettivo non è l’erudizione – per quella consiglio i manuali alla fine del discorso – ma arrivare ansimando a tendere la mano alla riot grrrl che alberga in noi. Non nascendo imparate, dobbiamo fissare la linea di partenza nella storia (generale) per giungere, nella prossima puntata, al qui e ora del particolare. Forza, coraggio, e apriamo il libro alla pagina 1. 

L’ottocento,  l’uguaglianza con gli uomini

All’inizio fu il suffragio, a cavallo tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. In realtà dobbiamo spostarci un pochettino prima, di un centinaio d’anni circa. C’era un tempo, e in certi spazi c’è ancora, nel quale l’oppressione era talmente connaturata alla condizione femminile da non permetterne alcuna presa di coscienza. Erano fatte della stessa materia, diciamo. Il pensiero femminista trova la sua data di nascita nel 1792, la sua nursery a Londra, quando Mary Wollstonecraft, scrittrice decisamente non in linea con gli standard in voga all’epoca, pubblicò Rivendicazione dei diritti della donna. Affascinata dalle azioni delle femmine della Rivoluzione Francese, in un periodo storico nel quale le signore non potevano uscire di casa se non accompagnate, dobbiamo immaginare un’intellettuale e “libera professionista” che divenne madre senza sposarsi, tentò il suicidio, ebbe diversi compagni e solo alla fine si sposò e partorì Mary Shelley, autrice di Frankenstein, che da lei ereditò una certa arguzia. É stata la prima a concettualizzare l’oppressione femminile come fatto culturale e non naturale, a lottare per veder riconosciuta un’educazione alle donne che permettesse loro di scegliersi almeno il marito, riformando il ruolo subalterno nel quale erano state relegate dalle narrazioni bibliche in poi.

Wollstonecraft (buon per lei) non fece in tempo a vivere il pieno della rivoluzione industriale, e il definitivo affermarsi della borghesia: le donne delle classi medie e alte, mantenute dai propri mariti-padri-fratelli, non avevano diritti in termini di voto, gestione delle proprietà, eredità, accesso all’educazione scientifica e alle libere professioni. Organizzate in quella che da qui in poi venne definita corrente liberale, iniziarono a chiedere di essere in tutto e per tutto uguali agli uomini, libere dagli obblighi familiari e indipendenti nelle entrate. Da loro nasceranno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna i movimenti delle suffragette che otterranno, dopo la prima Guerra Mondiale, diritto di voto. A fianco delle borghesi le donne operaie della corrente socialista rappresentavano una nuova classe senza protezione economica e costretta a vendere la propria forza-lavoro. Per loro il nocciolo della questione non era di certo il diritto all’occupazione, ma il cambiamento delle condizioni materiali, possibile solo con la rinuncia da parte delle persone ricche – donne comprese – ai propri privilegi. Le operaie posero il focus su una prima forma di intersezione, e su modi diversi di intendere lo sfruttamento femminile, presentandosi come oggetto di doppia discriminazione, in quanto donne ma anche in quanto prive di potere monetario.

A fine ‘800 Friedrich Engels, nel saggio L’origine della famiglia mise sotto accusa la famiglia monogamica in quanto responsabile della più basica forma di produzione – la riproduzione – e istituzione atta a preservare, in ogni classe sociale, il potere dell’uomo sulla donna. Teorizzò un legame indissolubile tra proprietà privata e sistema patriarcale, concetti nati quando il matrimonio, nelle società greche e romane, mise fine a sistemi nei quali la promiscuità sessuale garantiva l’assenza di subordinazione tra i sessi. A sentire quest’uomo la liberazione delle donne può avvenire solo smantellando la famiglia come unità economica di base e trasformando il lavoro domestico in lavoro sociale, la cura dei figli in problema di interesse pubblico. Wait a moment! Cooosa? Ho detto “uomo” ed è femminista???

 

Elspeth Beard, prima donna europea a terminare il giro del mondo in moto, 1982

 

Tra le due guerre, la differenza

In Occidente, nel primo dopoguerra, la parità di diritti e condizioni materiali era stata in alcuni casi raggiunta, ma lo status generale delle donne era cambiato ben poco. Bisognava scavare più a fondo, interrogare la costruzione stessa dei sistemi culturali e delle idee. E se invece che la parità si dovesse fare emergere la differenza? Costruire un mondo nuovo fondato su di essa? Due intellettuali aprirono la strada al ragionamento: la scrittrice Virginia Woolf e la filosofa Simone de Beauvoir. La prima, nel clima che precedeva la Seconda Guerra Mondiale, sottolineando l’importanza di assicurarsi indipendenza economica e trovare “una stanza tutta per sé” dalla quale condurre una vita autonoma, coltivare la propria natura creativa, promuovere la cultura della pace, organizzare nuovi modi per il confronto, sperimentare con strumenti privati in privato. La seconda osservando i profondi mutamenti dettati dall’impiego delle donne nei posti di lavoro lasciati liberi dagli uomini partiti per il fronte, e il conseguente incremento degli aiuti sociali per la gestione delle famiglie. L’esistenzialismo di de Beauvoir ci dice che ogni essere umano nasce libero, e può decidere di vivere “per sé” la via della trascendenza – trasformando le cose del mondo, o “in sé” la via dell’immanenza – accettando le cose per come sono. Com’è che allora gli uomini, universalmente riconosciuti come primo sesso, sembrano essere gli unici a beneficiare di questa libertà e le donne, subordinate e schiave, sono relegate al ruolo di secondo sesso? Loro stesse hanno forse scelto di essere complici del perdurare della propria immobile immanenza? “Donna non si nasce, lo si diventa”, e lo si diventa per scelta. E per scelta si può smettere di esserlo: 1. con un movimento collettivo volto all’eliminazione di ogni sfruttamento e dominio, 2. tramite la trasformazione in controparte dell’uomo, di pari dignità e diritto. La tensione sembra ancora quella della realizzazione nel contesto della coppia eterosessuale, ma siamo pur sempre nel 1949.

Anni ‘50-’70, femminismo radicale e sessualità

Uno sprint arriva con Betty Friedan e La mistica della femminilità, ovvero un’analisi della santa trinità che negli anni ‘60 sembrava rendere una donna tale: dedizione a marito, figli e casa. Appartiene a quest’epoca la diffusione, nelle pubblicità commerciali, dell’immaginario quasi archetipico della casalinga d’America. Una domanda pareva emergere da quelle effigi e tormentare gli uomini della metà del secolo scorso: e mò come le rimandiamo a curare marito e figli queste che in periodo di guerra si sono abituate a lavorare? Come le portiamo ad abbandonare studi e carriera per ricollocarle nel ruolo di housekeeper? In tante cedono alla seduzione, affascinate dalle immagini patinate di donne perfette (per chi?) e sorridenti di fronte a una nuova lavastoviglie, pagando il prezzo dell’infelicità o, meglio, con “il problema che non ha nome”.

So. Negli anni ‘70 appare lampante che se la società continuerà ad essere gestita e determinata dagli uomini non basterà ottenere i diritti che chiedono le liberali, e nemmeno lavorare ed essere indipendenti economicamente come pretendono le socialiste. Occorre piuttosto individuare e contrastare i mezzi del dominio. Sarà la docente universitaria Juliet Mitchell a introdurre un’intuizione di assoluta novità dalla quale prende avvio il femminismo radicale: la sessualità regolamentata dal matrimonio. Le donne del ‘68 partecipano ai movimenti antirazzisti, pacifisti e antimperialisti ma ne sono lasciate ai margini, e comprendono che scardinare le “radici” di questa oppressione diffusa significa liberarsi della servitù sessuale. Le radicali ritengono impossibile qualsiasi alleanza con il maschile, che sfrutta la donna come oggetto, genitrice, manodopera a basso costo, serva. Nascono i gruppi di autocoscienza, che danno voce a tematiche fino ad allora considerate tabù come mestruazioni, contraccezione, aborto, consultori, rifugi a protezione dei maltrattamenti. Le piazze chiedono di rifondare completamente tutti i prodotti dalla cultura suprematista maschile, finalizzata al dominio dell’uomo sulla donna (sessismo e patriarcato), dei bianchi sui neri (razzismo), dei ricchi sui poveri (capitalismo), dell’Occidente sul resto del mondo (imperialismo e colonialismo). La famiglia eterosessuale è alla gogna, perchè cellula basale dell’organismo che costruisce culturalmente, a partire dalla camera da letto, i destini di uomo sfruttatore e donna/madre subordinata. “Il personale è politico”.

Anni ‘80-2000, lesbismo politico, costruzione di genere, corpi cyborg

Anni ‘80. ”Il femminismo è la teoria, il lesbismo la pratica”. La soggettività lesbica all’interno del femminismo trova maggior spazio, dopo una iniziale decisa diffidenza. La differenza fra sesso biologico e genere, inteso come ruolo sociale, diventa sempre più pregante: la lotta è per liberarsi dall’oppressione dell’essere attribuite donne, ma anche per poter dichiarare il proprio orientamento sessuale (coming out) uscendo dalle pratiche private (in the closet). Monique Wittig arriva a definire le lesbiche come  non-donne, in fuga dal binarismo e dalla norma eterosessuale, apripista per la liberazione di tutte tramite autonoma costruzione della propria soggettività – identità – corpo. In questa scia, nel clima dettato dalla recrudescenza del neoliberismo e dalla crisi dei movimenti, negli anni 90/2000 si sviluppa il femminismo accademico metafisico di Teresa de Lauretis (che sdogana il termine queer), Judith Butler (con la teoria che ci vede educati a recitare ruoli di genere definiti dal pensiero dominante) e Donna Haraway (per i suoi cyborgs vi rimando qui). Queste pensatrici si staccano dalla politica e dalla piazza per confrontarsi con Derrida, Deleuze, Foucault e l’idea che non esistano soggetti e corpi dati ma solo costruiti dai dispositivi di potere e dal linguaggio, passibili di decostruzione e ricostruzione continua.

Arriva il nuovo millennio, un grosso lavoro è stato fatto, e l’opinione pubblica è pronta per accendersi intorno a nuovi temi che spesso si discostano da ciò che è considerato accettabile da un certo inasprimento radicale all’interno del femminismo stesso: il sex work (femminismo pro-sex o sex positive, che vede nel lavoro sessuale uno strumento politico di cui le donne devono riappropriarsi); la pornografia (l’ampio movimento post-porno che vuole liberare l’immaginario pornografico dall’oppressione patriarcale proponendo corpi, pratiche e sessualità svicolate dalll’essere funzionali al piacere maschile eterosessuale); l’eco-femminismo; il femminismo multispecie che ripensa la soggettività oltre il binarismo umano/animale; e, soprattutto, il grande ruolo che si prenderanno le escluse dal discorso, tra le quali le femministe afroamericane, africane, latinoamericane, transessuali, disabili.

Chiudiamo il libro, siamo state brave. Ora una pausa.

Letture:
Rebecca Buxton e  Lisa Whiting, a cura di (2021), Le regine della filosofia. Eredità di donne che hanno fatto la storia del pensiero, TLON
Adriana Cavarero e Franco Restaino (2002), Le filosofie femministe, Mondadori

Visioni:
Vittorina Sambri
Elspeth Beard