Vai in giro per malinconie

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C’è un segreto nell’Appennino. Non è che non l’avessi colto prima di leggere i Canti Orfici, ma Dino Campana lo sa disvelare con una sua potenza quasi primitiva. La si trova in quel verso, mentre descrive la salita (nello spazio ma fuori dal tempo) al monte Falterona: “su la lunghissima che sale in scale / La casetta di sasso sul faticoso verde: la bianca immagine dell’elemento”.

Dopo la pianura, l’Appennino è il mio secondo paesaggio o seconda anima. Quando fa molto caldo, d’estate, diventa una meta necessaria.

Da Tolè sono passata molte volte, “ci sono le patate buone” là. Però una frase che ho sempre sentito è “ah, è un terreno buono giusto per delle patate”.

Mi piacciono le cose che non spiccano per perfezione. Comunque sono tornata di recente a Tolè e il mercatino delle carabattole vecchie era già finito, stavano imballando tutto. Ho sorriso pensando che mi capita spesso di arrivare fuori tempo. Una signora anziana, seduta sulla panchina del centro, guardava gli oggetti che vengono avvoltolati nella carta di giornale.  Mentre torno alla macchina mi colpisce un dettaglio su un muro, invero il titolo di un’opera in maiolica: gente senza storia.

 

 

Sulla tendenza che incalza nel dipingere i muri dei vecchi borghi, per renderli turisticamente attraenti, ho alcune personali perplessità, tuttavia l’approccio tra il naïf e il popolare dell’arte di strada di Tolè, manifestazione sincera di una cultura materiale, mi stava incuriosendo. Allora ho proseguito. Mi è parso, aggirandomi, che quelle semplici sculture, quelle riproduzioni giganti e un pò kitch di foto d’epoca, raccontassero tanti fantasmi. Si tratta di poche viuzze: in alcune spicca una tendenza neoromantica ad estetizzare il mestiere antico, ibridandolo con il paesaggio da cartolina. Viene in aiuto un cespuglio di lavanda piazzato al punto giusto. Mi viene allora alla mente un brano di Vito Teti in La restanza in cui parla di mode che di fatto “rischiano solo di porre una lapide dove versare le poche lacrime ancora disponibili, dove esercitare” scrive “sterili malinconie”. Rimango lì tesa tra due forze: la prima è l’innamorarsi delle cose che provengono dal Tempo, il piacere amaro che inducono le immagini, così cariche di quel senso di lontananza. La seconda è quella di non cadere nella celebrazione retorica delle “rovine”, tanto cara ai flâneurs contemporanei.

In questo continuo riconoscersi e perdersi trovo una sintesi, un diapason in grado di riassestare un equilibrio tra sensi e coscienza. Non lo trovo nelle opere d’arte dipinte o nelle sculture appese ma in alcune targhette poco appariscenti, poste sulle porte delle abitazioni. In quelle ritrovo una bussola che orienta, che mi ricorda che nessun borgo antico è come può apparire ad uno sguardo superficiale “groviglio casuale di abitazioni” ma al contrario è “trama di relazioni, vissuti e pratiche sociali interrelate”. Se leggerete le targhette scoprirete chi abitava dietro quella porta e qual’era il suo ruolo nella vita del paese. C’è la vecchia casa della levatrice, del gelataio e quella dello stagnino, nome e cognome e il modo di dirlo in dialetto, in bolognese, anche se siamo sul confine con Zocca (MO). Che siamo in un borgo “tra qua e là” lo capirete dal cippo confinario che in passato divideva lo Stato Pontificio dal Ducato di Modena. In realtà il cippo se ne sta nel posto “sbagliato”, fu messo lì negli anni sessanta: una bella testimonianza storica per abbellire il centro del paese. Prima se ne stava sommerso e dimenticato nella vegetazione dal lontano 1615. Anche lui, dunque, ha smesso da tempo il suo “mestiere”.

Se poi percorrete “il vicolo dei gatti”, nel Borgo di Sopra, alla fine sulla destra c’è una casa e sul campanello trovate il cognome “Lanciotti”. La sua storia è ancora testimonianza che “il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli”. Almeno per un pò. La targhetta dice “Lanciot al fa incosa”. Il Lanciotti era un toletano molto amato, noi diremo “ciappinaro” ovvero l’ingegnoso tuttofare. Evinco dal dipinto posto sulla facciata che quest’uomo era un raffinato orologiaio, barbiere e all’occorrenza “cava denti”.

 

 

Scopro poi che un erede, il sig. Tino Lanciotti, è stato fino a poco tempo fa l’uomo che “controllava il tempo” al campanile di Sasso Marconi.

Mi perdo nei dettagli degli oggetti raffigurati: scatoline, orologetti, minuterie.

Una figura come la sua è eterna e antica al tempo stesso come le botteghe dove, per necessità, si vende quel pò di tutto.

Me ne vado da questo borgo illustrato come un libro e realizzato per gioco da tante mani, dove i colori lentamente si scrostano, le sculture imbruniscono e dove la gente senza storia viene ora raffigurata con le mascherine sul volto.

Se siete a piedi fate una passeggiata di un paio di chilometri e raggiungete Ca’ Bortolani dove c’è Il Mulino del Dottore. L’ho scoperto anni fa in una domenica di Novembre, mi ero fermata a chiedere informazioni in una bottega e mi venne risposto “cosa vai a fare in giro per malinconie?”.

Mi aspettavo un rudere e invece tra le pareti in sasso di fiume e il vorticare delle fiere macine di pietra, mi venne un tuffo al cuore. Da lì tornerete con farine, biscotti e miele.

Tu chiamale, se vuoi, malinconie.

 

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