Kilowatt a Cortona: Unterwasser, Leo Bassi, Luna Cenere, Controcanto, Fanny & Alexander

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Cortona

 

Dopo una lunga relazione di diciannove anni con il comune di Sansepolcro, dove il festival Kilowatt è stato ideato, è nato ed è cresciuto fino a diventare punto di riferimento per le rassegne teatrali a livello italiano, l’importante incubatore di energie e nuovi influssi diretto da Lucia Franchi e Luca Ricci (compagnia CapoTrave) si è trasferito a Cortona (ma non è un tradimento) città etrusca e che successivamente ha dato i natali al Beato Angelico, a Gino Severini fino ad arrivare a Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti.

Un borgo che è salito alla ribalta internazionale, soprattutto anglofona, per il romanzo di Frances Mayes Under the Tuscan sun, romanzo autobiografico della scrittrice statunitense di metà anni ’90 che è divenuto pellicola nel 2003 con, tra gli altri, Diane Lane e Raoul Bova. Che sia l’incipit per un festival diffuso, e impegnativo, tra la Val Tiberina e la bassa Toscana?

Sansepolcro e Cortona non sono poi così vicine: una cinquantina di chilometri per un’ora di strada in macchina.

Non è stato, almeno per adesso (ma la partita a livello politico si gioca da ora in avanti), uno strappo netto, ma una scissione parziale dividendo il festival in due parti, la prima appunto a Sansepolcro (dal 12 al 16 luglio con il “padrino” d’eccezione Pippo Delbono), la seconda a Cortona (dal 20 al 24).

Ma non è stata una divisione bensì un raddoppiarsi, un cercare nuove vie.

Dopo varie vicissitudini con il comune di Sansepolcro dove Ricci/Franchi (dopo i ricci/forte…) e compagnia erano spesso sopportati e non supportati, è stato deciso di provare ad aprirsi nuovi orizzonti; a fronte del contributo al festival di Sansepolcro di 13.000 euro ha risposto la neoentrata Cortona con 40.000 più un ulteriore sponsor che ha fornito altri 10.000 euro.

La differenza salta agli occhi, fanno dire a Buffalo Bill in una canzone.

In questi anni Kilowatt è divenuto un vero e proprio fiore all’occhiello, elevando una provincia, tirando su a pane e teatro intere generazioni di Visionari, non addetti ai lavori che scelgono una parte del programma da presentare in estate, vincendo due Premi Ubu, il Premio della Critica ANCT, il Premio Radicondoli, il premio I Teatri del Sacro, tutto questo a sostegno e controprova del buon lavoro svolto sul fronte esterno del pubblico e su quello interno degli operatori.

Qui, ogni anno, il programma è pieno, denso, da riempirsi occhi e cuore, approntato con cura, variegato, multidisciplinare, aperto ad ogni forma d’arte senza chiusure né preclusioni, per ogni palato, dal popolare all’intellettuale.

Molta importanza ad ogni edizione è dedicata al titolo della rassegna, Eccesso di realtà quello del ’22, e alle locandine, sempre puntuali, pungenti, urgenti, necessarie: oggi l’immagine è quella di un uomo spiaggiato, tra il naufrago e il rilassato come a prendere il sole e a godersi le vacanze che non si accorge dell’ondata di rifiuti che galleggia sul mare, sull’oceano lì di fronte a lui tra l’ignoranza e la sottovalutazione del problema.

Molte le location utilizzate, dalla piccola Palestra di San Sebastiano al salotto buono del Teatro Signorelli, dalla scenografica Piazza del Duomo alla Storia che si respira nel Chiostro di Sant’Agostino, un abbeverarsi continuo di Arte e Passato.

Forse, questa ventesima edizione, almeno per la parte cortonese è stata una delle più belle e vive, frizzanti.

Molti festival dovrebbero prendere appunti e lezioni dall’organizzazione, dalla gentilezza, dalla competenza, dalla professionalità di Kilowatt che unisce la sapienza della scena allo star bene.

 

 

Nella nostra analisi dobbiamo iniziare assolutamente con quello che, a nostro avviso, è stato il fiore all’occhiello della kermesse, Boxes del collettivo Unterwasser, una vera sorpresa e felice scoperta, un tocco di nostalgia, tanta poesia e un ritorno all’infanzia che ha aperto ricordi e immaginazione, fantasia e sogni, memoria e respiro.

Sei postazioni per cinque spettatori alla volta che ruotano le loro esperienze davanti a piccole ingegnerie, di fronte a macchinerie artigianali complesse e semplici allo stesso tempo dove la dolcezza e la sagacia vengono miscelate in una bolla, dentro una parentesi sospesa nel tempo e nello spazio.

Davvero fruibile per i bambini di ogni età, anche quelli cresciuti e adulti.

Perché queste stazioni vanno a pescare dentro lo spettatore, qui non solo passivo, emozioni, tirano fuori un passato tutto personale, un vissuto da agganciare alla visione proposta.

Tutto è piccolo, fragile, con quell’aria trasognante del gioco, quella patina di irrealtà favolesca e fiabeggiante che paradossalmente rende il tutto credibile e potente nella sua eleganza e grazia come una delicata carezza di una mamma, o ancora meglio, di una nonna.

Il calore profondo che sprigiona è proprio assimilabile a quella sensazione di casa, di protezione e affetto che si disloca in ogni poro rilasciando endorfine e facendoci uscire dalla performance tutti con un sorriso stampato in faccia, con la forza soltanto per dire un Grazie sentito, quasi commosso per la generosità, la morbidezza, la tenerezza.

Ci sono ventagli e piume e bottoni da usare che entrano dentro la drammaturgia e interagiscono con microazioni di proiezioni, c’è l’uso delle cuffie che accudisce e ovatta i suoni dell’anima a placarla, massaggiarla, maneggiandola con cura e cautela, c’è una piccola piscina dove scoprire i suoi personaggi in miniatura tra ossessionati dell’abbronzatura e pesci e apneisti, polpi e granchi e stelle marine mentre noti e scruti tutto questo habitat, questo microcosmo attraverso una maschera da subacqueo.

Il nodo di fondo è l’escamotage del buco della serratura, del voyeur che è in ognuno di noi, qui senza malizia ma solo con la curiosità e la furbizia del bambino che spia la vita con l’illusione di non essere stato visto.

Siamo guardoni, forse ci stiamo affacciando sull’abisso della nostra vita, siamo Peeping Tom a rievocare lo spirito di quando eravamo piccoli e tutto era ancora in divenire, tutto era ancora possibile e niente era stato scritto.

Ecco una cassettiera dove al suo interno un mondo di nonna si agita lentamente: gli occhiali, la radio, le medicine, l’orologio, il filo per cucire.

Le fotografie seppiate al gusto di nostalgia, le caramelle Rossana.

Ecco un caleidoscopio magico che cambia e muta di macchie e foglie e piante psichedelico e coloratissimo, ora ci imbattiamo in un mini boschetto per concludere tra le arnie mentre le domande, così assurde e così vere, dei bambini (questi intermezzi ci hanno fatto ricordare il progetto video Caro Gesù di e con Michele Di Mauro e con Fulvio Cauteruccio) ci rimbombano nelle orecchie e nella testa, domande alle quali gli adulti, ormai saggi e inariditi e seri e compunti, non sanno più rispondere.

Come abbiamo fatto a perdere tutto quello stupore, tutta quella bellezza, quella ingenuità e freschezza e leggerezza e purezza? “Cos’è il profumo del pane?”, “Come si fanno i ricordi?”, “Quando è il tempo?”.

Ne usciamo con un paio di lezioni da trascrivere e portarci addosso: Cos’è l’entusiasmo? E’ la fame di cose belle, e ancora Cos’è adesso? E’ il tempo di farsi spuntare le ali.

Sotto (il pelo dell’)acqua (la traduzione dal tedesco di Unterwasser), sotto la superficie delle cose accadono cose incredibili, tutte da vedere e scoprire, basta avere la curiosità di infilarci la testa dentro.

Un microclima vibrante e stupefacente, un teatro delle piccole cose, piccole come le lacrime che scendono.

 

 

Sull’onda di questa piccola grande chicca lo show, di tutt’altra natura, di Leo Bassi con il suo 70 anni autocelebrativo spettacolo sull’età raggiunta.

Il clown un po’ italiano un po’ spagnolo un po’ francese, nato negli Stati Uniti, è un po’ meno cattivo rispetto a prima ma è sempre folle ed energico, un Puk impazzito che tiene la platea alternando momenti dissennati, come il distendersi sulla schiena su bottiglie rotte, ad attimi di pura poesia come le foto con i genitori.

Si ride, molto, e ci si commuove, moltissimo.

C’è un punto che ha provocato un silenzio profondo in un pubblico fino ad un momento prima festante e urlante, ridente e applaudente: con il sottofondo magico e ipnotico e malinconico e stordente di Satie con la sua inquietante e conturbante Gnossienne N. 1 vengono passate le immagini girate nientemeno che dai Fratelli Lumiere che riprendono gli avi di Bassi, giocolieri, trampolieri, circensi come lui, come tutta la sua famiglia da generazioni.

Ecco qui il crack emotivo; Leo, verve da vendere ai giovani d’oggi, nel suo essere corpulento ed esplosivo, dice piano: “Mentre in Europa si stavano organizzando per due Guerre Mondiali i miei nonni giocavano con i birilli”, che è una frase di una verità cristallina e brutalità, di una sensibilità infinita.

Nei suoi settant’anni ha vissuto migliaia di esistenze, cambiato continenti, vissuto ovunque, ha mille storie da raccontare nel suo esperanto, è comunicativo e istruttivo, ci ha insegnato come si può stare al mondo senza credere nei valori del capitalismo quali l’arricchimento, l’accumulo, la paura della morte, l’ostentazione.

Leo Bassi è eterno, eternamente bambino, perennemente felice del tempo che gli è stato concesso.

Una fortuna per noi che lo abbiamo visto.

Un inno, ispiratissimo, alla vita.

 

 

Criptico e nebuloso ma potente e impetuoso, pur essendo composto da movimenti minimali e millimetrici, Shoes on di Luna Cenere con due formidabili danzatori in scena, Michele Scappa e Davide Tagliavini, dai corpi muscolari e flettenti che con minimi gesti, in relazione e dialogo continui, hanno creato immagini deformi cariche di lirica e forza ancestrale.

Come due titani caduti nel fango, nudi (ma con le scarpe come suggerisce il titolo) senza esprimere le loro nudità, rugbisti in mischia, espongono i profili mentre le teste sono timide, incassate, nascoste come quelle degli struzzi.

Nello sdoppiamento, nel ribaltamento ecco che spunta un cuore formato con le schiene inarcate e le gambe piegate, accovacciati l’uno dentro l’altro ad immergersi, prendersi, fagocitarsi in una sorta di abbraccio fisicamente faticosissimo.

Si tendono allacciandosi, si tengono per non perdersi, in una morsa come pistoni ad estrarre il petrolio.

Ora sembra di vederci, tra il chiaroscuro e i muscoli tesi, uno dei bizzarri esseri disegnati da Bosch, un insettone kafkiano, un unico organismo tra posizioni ed evoluzioni ad incastrarsi in un Tetris di carne e ossa.

Adesso sembrano due occhi giganti oppure centometristi ai blocchi di partenza su una pista d’atletica sempre nell’attimo esatto immortale e imperituro prima di scattare, ora, continuando l’affondo sportivo, come il ciclista Mario Cipollini che pedalava nudo in uno spot o ancora il Figlio del VentoCarl Lewis con i tacchi a spillo in una pubblicità della Pirelli.

Essenze, sostanza, materia, massa nell’atto della Creazione.

 

 

Vive di fraintendimenti e contraddizioni invece Salto di specie di Controcanto Collettivo.

Di quest’ensemble laziale avevamo visto, qualche stagione fa, il loro Sempre Domenica e tutti gridammo al piccolo capolavoro.

Dopo Settanta volte sette, che ha molto colpito pubblico e critica, ci siamo trovati davanti a questo equivoco di fondo, partendo dalla scrittura che non centra bene l’obbiettivo dilungandosi a dismisura su personaggi e particolari prima di arrivare al focus e una volta raggiunto concludere velocemente le operazioni per una fine annacquata, il linguaggio, a tratti veramente incomprensibile (mi si dirà, la loro cifra stilistica), un mix tra la serie tv su Totti, Romulus e Suburra (dovremmo aprire una parentesi sul teatro dialettale e se il romano, ad esempio in questo caso, possa essere annoverato tra le lingue regionali, teatralmente parlando, come il napoletano, il pugliese, il calabrese e il siciliano, il sardo con tutte le loro sottospecie provinciali o zonali del caso), una storia che sembra puntare alla risata quando è in atto una tragedia, personale e collettiva, intima e generazionale, una scenografia (dopo la scarnità delle sedie di Sempre Domenica e i pochi oggetti di Settanta) nella quale pare proprio che non sappiamo che direzioni prendere e come occupare lo spazio dei continui dentro e fuori.

Ma il tema è importante: parla di un crack, di un momento di svolta, di quei lampi che ti colgono e ti stravolgono la vita con tutte le conseguenze da subire, accogliere, sopportare.

Ma, ripetiamo, l’andamento e l’andazzo sono quelli da sitcom, da sceneggiata mentre è in corso il dramma della solitudine da un lato e la morte di esseri viventi dall’altra con, a cascata, tutte le analisi globali sull’impatto dell’uomo sulla Natura, sugli animali, fino al vegetarianesimo e alla salvaguardia del Pianeta.

Argomenti pesanti declinati con troppa leggerezza e buttati nell’agorà del dibattito con nonchalance.

Tanto che il (fastidioso) pubblico ride quando dovrebbe piangere, o anche soltanto riflettere, forse imbeccato dalle modalità e dallo sviluppo di questa tragedia (trattata però con gli stilemi della commedia) che sfiora il teatro amatoriale oppure soltanto acerbo e naif.

 

 

Controverso anche il nostro sguardo su Addio Fantasmi di Fanny & Alexander, tratto dall’omonimo romanzo di Nadia Terranova.

In scena due bravissime attrici, la sempre eccelsa Anna Bonaiuto e la particolare Valentina Cervi nell’affrontare rispettivamente madre e figlia.

Un romanzo complesso, difficile da tramutare sulle tavole di un teatro (l’adattamento e la drammaturgia sono di Chiara Lagani) dove ad un piano realistico, una figlia che viene richiamata a casa dal genitore in difficoltà, se ne sovrappone un altro immaginario, fatto di ricordi sbiaditi o sostituiti dal sogno, a creare un quadro d’incubo dove i confini del plausibile si fondono in quelli dell’impossibile.

Molti punti interrogativi sulla regia, sulla voce fuori campo e in generale la sensazione alla fine della replica rimane dubbiosa.

E’ il personaggio della figlia quello che più subisce (non tanto nell’interpretazione dell’attrice quanto per il trattamento del ruolo) più scossoni passando da una netta razionalità (lei in bianco mentre la madre in nero), a confronto con quella che ci sembra l’impulsività della madre (Anna Bonaiuto sempre gigante della scena, taumaturgico il suo monologo), ad una deviata patologia (leggermente tendente a Psycho) che confonde quello che è stato con quello che avrebbe voluto che fosse accaduto.

La percezione è di squilibrio, come di note stonate, c’è qualcosa di fondo che stride, che non rende armoniosa e fluida la narrazione di questo thriller a tinte fosche infarcito di musica da suspense ad alimentare una tensione crescente con alcuni grossi nodi da sciogliere, il padre, la casa abusiva sul tetto dei vicini, la fine del muratore.

I fantasmi non se ne sono andati.

Non tutti i romanzi possono trasmigrare in drammaturgie.

 

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.