Oliviero Toscani, Man Ray e gli altri

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Maurizio Cattelan - ph Oliviero Toscani

 

Sono in corso e proseguiranno fino al 4 settembre a Bologna, a Palazzo Albergati, due mostre fotografiche che abbiamo visitato qualche settimana fa e che desideriamo restituire a frammenti, come di consueto non per esternare giudizi ma per condividere pensieri e domande che tali proposizioni hanno fatto sorgere in noi.

Una si intitola Oliviero Toscani. 80 anni da situazionista.

L’altra, Photos!, presenta opere dalla Collezione Julián Castilla: fotografie di Alfred Stieglizt, Man Ray, Henri Cartier-Bresson, Vivian Meier, Robert Capa, André Kertèsz e Robert Doisneau, nonché di autori spagnoli come Carlos Saura, Isabel Muñoz, Cristina García Rodero, Chema Madoz e altri.

Less is more, ci hanno insegnato: per questo motivo, dalla ridda di possibilità, enucleiamo unicamente tre immagini-stimolo.

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La prima che desideriamo condividere è un ritratto di Man Ray realizzato da Oliviero Toscani nel 1976: idealmente collega le due mostre allestite a Palazzo Albergati.

 

 

Man Ray, è fotografato da Toscani nel suo studio parigino di Place Saint-Sulpice. Questa è una delle ultime fotografie conosciute di Man Ray, che morirà quello stesso anno.

Quanto, in una immagine, l’aspetto ideativo e compositivo sono stimolati (o suggeriti, o imposti, o al contrario ostacolati o impediti) dal soggetto ritratto?

Come in ogni faccenda umana Si tratta, probabilmente, di un semplice rapporto di forze.

In questo caso come sarà andata?

E quando/quanto l’accostamento a volte paradossale di elementi diversi può generare un elemento terzo, nella nostra percezione?

Su questo specifico aspetto vale certo soffermarsi sul lavoro di un altro autore in mostra, il geniale Chema Madoz.

In generale: quale disponibilità abbiamo a farci sorprendere da ciò che incontriamo?

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Un recente ritratto di Toscani ai Måneskin.

 

 

La genealogia dei fotografi dei divi è lunga, da Nadar a LaChapelle e in mezzo vari altri, tra cui appunto l’artista milanese.

In quale misura ci aspettiamo, nella fotografia di un soggetto che ammiriamo, la riconferma del nostro immaginario?

Secondo Umberto Eco, per capire cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie, abbiamo bisogno di categorie, che gli schemi cognitivi ci aiutano a creare: per attribuire un significato a qualcosa bisogna riuscire a inquadrarlo, a metterlo in una cornice, a dargli un’etichetta. Uno dei modi, nel mondo dell’arte, per inquadrare un’opera è collocarla in un determinato genere: è una nozione da tutti noi continuamente utilizzata, anche se spesso in maniera inconsapevole, come strumento per individuare caratteristiche testuali a cui riferire significati. Quando andiamo al cinema, ad esempio, sappiamo che stiamo vedendo un melodramma, un western, un horror, un classico, un moderno, un postmoderno, un action movie o chissà che altro, e, a partire da questa etichetta possiamo, ad esempio, valorizzare il film proprio a partire dall’individuazione di una variazione, di uno scarto, rispetto al genere in cui lo abbiamo incasellato.

Detto altrimenti: noi non guardiamo le cose, ma guardiamo noi stessi guardarle, e quel che ci colpisce è l’eventuale distanza tra il nostro immaginario e ciò che percepiamo.

Dannazione narcisistica, ma tant’è.

Una fotografia può aiutarci a modificare tale attitudine, o almeno a renderla cosciente a noi stessi?

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Terza e ultima immagine, famosissima: The Falling Soldier di Robert Capa del ’36.

Ai fini del nostro piccolo discorso la riproduciamo tre volte, in altrettante versioni recuperate dal web (la seconda è la pagina della rivista Life del 12 luglio 1937, la terza proviene dal sito dell’autorevolissimo Met di New York).

 

 

Come è evidente, vi sono chiare differenze tra le tre immagini. Ciò, certo dovuto alla riproducibilità tecnica (per dirla con Walter Benjamin) dell’opera fotografica, apre a più di una questione interessante.

Al di là delle dinamiche economiche che ciò comporta, che esulano dal presente articolo, quanto la consapevolezza di non essere di fronte a un unicum modifica la nostra percezione di eccezionalità, o almeno di qualità, dell’esperienza estetica che stiamo vivendo?

Quando e quanto abbiamo bisogno di sentirci esclusivi?

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Mille e mille altre cose si potrebbero dire, su queste e altre immagini in cui ci si può imbattere a Palazzo Albergati.

Noi ci fermiamo qui.

E vi suggeriamo una visita, per creare autonomi percorsi di senso, di significazione.