Tra le scatole, a Colpi di Scena

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Hermit

 

Tra gli spettacoli visti alla Biennale di Teatro Contemporaneo per Ragazzi e Giovani Colpi di Scena, tenutasi dal 28 giugno al 1 luglio 2022 a Forlì, ce ne sono due che mi hanno suggerito un’analogia con il concetto di “scatola”. Il primo è Hermit, della compagnia olandese Simone de Jong Company, il secondo è Sono solo favole, di Alchemico Tre.

In Hermit per quasi dieci minuti, in scena si vede soltanto un cubo di legno. Grande quanto basta per contenere un uomo e piccolo quanto basta per non lasciarlo a intendere. Ma, a dispetto delle apparenze, dentro al cubo c’è davvero un uomo. È un dettaglio che si scopre pian piano, quando si vede il sorprendente muoversi del cubo e quando poi si apre una fessura, da cui esce un labbro, un naso, un dito. Poco alla volta si presenta un corpo, un pezzo alla volta, in un gioco (un puzzle) di scoperta che avviene man mano, pie piede, gom gomito e così via. È un esercizio di sguardo che seziona e mostra. L’effetto comico è travolgente: i bambini gridano e ridono a crepapelle. Come se non avessero mai visto un naso o un piede. È un gioco che potrebbe andare avanti all’infinito, ma dopo qualche minuto la faccia dell’attore fa capolino da quella del cubo. È l’inizio di un nuovo gioco, che sembra il nascondino. Al sicuro della sua tana, l’attore è come un paguro nella sua conchiglia (forse non è un caso che hermit crab in inglese sia il nome del paguro) e si rifiuta di uscire. Anche quando suona il campanello. Anche quando suona il campanello. Anche quando suona il campanello. Non mi sono incantato, è lo spettacolo che è fatto così, con continue ripetizioni di gesti, suoni, frasi (anzi una sola frase: “non sono a casa”). Mentre si stabilisce un rapporto, via via più partecipato, con i bambini: prima indicati da un indice, poi guardati da un paio di occhi e dopo chiamati a usare il loro, di indice, o il naso, per suonare un campanello. E dopo tante e tante suonate, ci sarà finalmente l’apertura della porta di casa-cubo, che, facendo entrare uno dei bambini, sancirà un punto di arrivo con il quale termina lo spettacolo. Ma dov’è la scatola in tutto questo?

 

Hermit – ph Francesco Bondi

 

Nel 1943, il disegno di una pecora scriveva la storia della letteratura per ragazzi. In realtà, però, era il disegno di una scatola, dentro alla quale stava una pecora. È l’inizio del racconto Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, che in poche righe spalanca una prospettiva nuova sul rapporto con la realtà. In maniera molto simile nello spettacolo Hermit c’è un cubo, dentro al quale c’è un attore. In entrambi i casi, dunque, c’è una presenza, invisibile, ma fortemente sentita da chi è in grado di accettare con sincerità il ruolo di osservatore. E i bambini della scuola dell’infanzia, il pubblico preferenziale dello spettacolo Hermit, sono osservatori nati. In che senso? Che sono presenti e pienamente consapevoli di esserlo. Lo dimostrano le continue grida che lanciano nel corso della rappresentazione, come i “siamo qui!” e i “siamo noi!”. E da bravi osservatori credono a tutto quello che vedono, come se fossero nati ieri (e mai modo di dire si è avvicinato di più alla realtà). È un vero e proprio spettacolo naturale, quello che si scatena in platea. Lo spettacolo dell’infanzia in tutta la sua forza. Ben vengano giochi teatrali come questo, che chiamano a un’osservazione partecipata e sfidano a una libertà di rapporto.

 

Sono solo favole – ph Francesco Bondi

 

Nello spettacolo Sono solo favole, di Alchemico Tre, invece, la scatola si trova letteralmente sul palco. Anzi, ce ne sono decine. Viene messo in scena, infatti, un tentato trasloco. Tentato, perché il protagonista, un ex bambino figlio di una scrittrice di favole, cerca di fare piazza pulita dei ricordi, ma si ritrova magicamente imprigionato nella casa della madre e dovrà giocoforza scrivere favole per liberarsi. Quello di Alchemico Tre è uno spettacolo costruito con molta complessità e cura, che inizia diversi giorni prima della rappresentazione, in un laboratorio condotto nelle scuole (l’età indicata per lo spettacolo è 6-10 anni). Nel laboratorio si chiede ai bambini di alcune classi di disegnare, leggere e completare fiabe. I disegni, le voci registrate e gli spunti così ottenuti verranno inseriti nello spettacolo che quelle determinate classi andranno a vedere, permettendo ai bambini di riconoscere il loro contributo in scena. L’introduzione dei disegni dei bambini, così come la maggior parte della scenografia dello spettacolo, è ottenuta tramite l’uso studiato di fondali proiettati interattivi, che si incastrano alla perfezione con i movimenti dell’attore e della trama. Si tratta di pregevoli illustrazioni animate che simulano l’ambiente della casa, un ambiente che si modifica nel corso della storia: prima con l’improvvisa muratura di porte e finestre, poi con la casa che si ribalta, dopodiché con l’apparizione di un lago, e con la progressiva comparsa di animali, personaggi e alberi, fino al finale in cui la sparizione delle pareti trasforma definitivamente la casa in un bosco. Per buona parte dello spettacolo la sensazione che si prova è quella di essere intrappolati dentro una di quelle serie televisive di sopravvivenza (per citarne una, Squid Game). Come se ci si trovasse rinchiusi dentro la scatola televisiva. Tutto infatti sembra adeguarsi al tipo di linguaggio utilizzato nei prodotti per la televisione (volendo includere anche le piattaforme di distribuzione in questo termine). In primo luogo per la scelta degli sfondi animati, come quelli di un moderno set, poi per via della storia, che riprende il genere survival in voga al momento, riadattandolo per un pubblico di bambini, infine per la recitazione, particolarmente didascalica e molto lontana dalla spontaneità, come si usa in molti programmi tv per bambini. Sono solo favole risulta quindi un prodotto complesso e ben realizzato, ma appare molto inquadrato nella produzione artistica di largo consumo, che mira più a suggerire che a sfidare, a esplicitare piuttosto che lasciar scoprire, come invece aveva fatto Antoine de Saint-Exupéry con la sua pecora.

In conclusione e sintesi: ho visto due spettacoli giocare con l’idea di scatola. Nel primo caso col fare animalesco e spontaneo di un paguro. Nel secondo con un sudato costrutto narrativo e scenografico. Nel primo caso scatenando nel pubblico la libertà (di gridare, premere e soprattutto immaginare), nel secondo dando l’illusione di essere intrappolati come in una scatoletta di sardine, che in effetti è un po’ il prodotto commerciale per eccellenza.

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