una rubrica sulle parole che fanno le cose

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@ Enrica Camporesi (cera su scarabocchi)

 

Chiamare un gatto un gatto in nederlandese (così accontentiamo sia i fiamminghi che gli olandesi) significa chiamare le cose con il loro nome, senza fare giri di parole.

E’ quasi ferragosto, siamo a Forlì e ogni estate quando scendo mi sento sempre più in vacanza in una città che era mia quando ancora non mi ponevo la domanda di appartenere a qualche posto. Le strade funzionano ancora come strade nonostante io ne abbia scordato i nomi. Supero un parchetto dedicato a mio nonno (Nazario Sauro Bargossi, zona Cimitero monumentale, ma questa rubrica parla solo per sbaglio di storie di famiglia) con un senso scomodo di inadeguatezza per avere degli attivisti come parenti. Mentre mi avvicino alla Taverna Verde (solo un pochino di Google Maps alla fine), mi assalgono un paio di domande ancora più scomode e vaghe sul valore della memoria, la memoria del valore e il peso della nostalgia che mi investe inaspettata quando sono al Nord. Ad Anversa (Fiandre, Belgio) nessuno si interessa né di mio nonno, né di me. Io sono s u p e r f l u a. Questa consapevolezza liberatoria – condivisa (almeno) da tutti i migranti del mondo – ha dei vantaggi. Tra questi, il diritto all’autodeterminazione nell’anonimato.

La lingua che fa

Una volta a casa di Michele (Pascarella, della redazione di Gagarin), chiacchieriamo sulla scena delle arti performative contemporanee di Anversa (dove abito), Maastricht (dove studio), e delle Fiandre (dove lavoro). Ci sembra interessante scriverne in italiano.

Da qui l’idea di un gatto un gatto, una rubrica sulla lingua che fa.

 

@ Enrica Camporesi (cera su scarabocchi)

 

Il mio personale tragitto di autodeterminazione (e di emancipazione dall’autocensura e dalle aspettative proprie e altrui come migrante, lavoratrice, donna, madre, bipede, …) passa per me dalla lingua. Mi serve una lingua nuova in cui mettere in discussione le molte infrastrutture di cui sono portatrice inconsapevole.

Cerco una lingua in cui rinascere, in cui riesco a capire gli altri e a farmi capire.

Questa lingua che cerco oggi è nata come lingua madre e modello prima di moltiplicarsi. Ora è un tragitto, un movimento, un balzo. A volte è una scelta, a volte un fossile. E’ un dizionario svuotato, stanco, svampito. E’ nei neologismi e negli errori di sintassi che costruiscono significati sorprendenti per i parlanti nativi. E’ la lingua autodidatta di un amante adulto. E’ un muscolo che lotta coi suoni nuovi e alla fine sta zitto per imparare ad ascoltare.

Non è una questione linguistica nel senso grammaticale dell’italiano o del nederlandese o delle altre lingue in cui funziono (inglese, francese, arabo). In effetti scrivo lingua ma intendo la lingua che assolve alla sua missione, che significa davvero qualcosa perché apre le porte del mondo, perché è condivisa.

La lingua colla

Intendo comprensione, connessione tra tutto il potenziale cognitivo che posso pensare e verbalizzare, e quello che sento. Ho bisogno di riassemblare le grammatiche e le statistiche con una comprensione emotiva più profonda di me e del mondo che mi circonda. (Qui si innesta il tema dello scollamento tra conoscenza, linguaggio e sentire, vedi ad es. il lavoro sperimentale dell’autore/performer Sina Seifee o dell’artista visivo Erick Beltran, incontrato a Kassel quest’anno). Quindi dico lingua ma intendo colla, assemblaggio, ricomposizione dei frammenti e dei simboli. Ecco: nel mio lavoro mi pre-occupo di creare spazi di comprensione dove anche gli errori non sono sbagli ma sono esercizi di prossimità per approssimazione. (Sulla prossimità come strategia drammaturgica sono debitrice a Bart Van Den Eynde, Accademia di Teatro di Maastricht).

 

 

A word is dead / When it is said / Some says. / I say / it just begins to live / that day. 

(Una parola muore / quando è detta, / dice qualcuno. / Io dico / che inizia a vivere / proprio quel giorno. Perdonami, Emily Dickinson, per usarti come titoletto. Poema del 1872)

Come autrice sono affascinata dalle parole performative (grazie a J. Austin, How to do things with words, 1962): quelle parole che fanno succedere le cose perché sono parole che si attivano e attivano il contesto in cui sono dette e scritte. Sono parole interessanti perché – proprio perché sono dette e scritte – vivono nella relazione con altri. Questo a differenza di tante altre parole che ci scappano o – dramma! – muoiono una volta comparse sulla scena del discorso e della pagina.

Lingua primordiale e alfabeto

Questo fatto della pagina come teatro e delle parole come performer mi affascina molto e lo esploro da un paio d’anni in Oertaal: oefeningen. Oertaal è un parola compatta che in italiano va scorporata e tradotta come lingua primordiale. Lingua primordiale: esercizi è il progetto multidisciplinare e multilinguistico (tra performance, storytelling, scrittura, disegni e installazioni) a cui sto lavorando e in cui si inscrive anche questa rubrica.

Qui prometto (il verbo promettere è un esempio di enunciato performativo, perché installa certe aspettative e impegni tra me e te, caro lettore) di condividere pensieri domestici e selvatici, materiali originali e recensioni di spettacoli e performance, e di tradurre verso l’italiano alcuni testi sulle arti performative dal nederlandese. Mi piacerebbe attivare questa pagina anche tramite piccoli esperimenti e giochi performativi.

L’idea è di fare della rubrica un alfabeto: per ogni lettera un articolo.

Digerire la diversità

Questa rubrica è anche uno spazio di digestione della mia migrazione, un modo per riportare a casa alcune parole e pratiche utili a pensare la (mia) diversità.

Infatti: se da Anversa contribuisco al dibattito sul multilinguismo e sulla diversità anche in quanto migrante, cosa resta di queste riflessioni se le traduco per il mio paese e nella mia lingua materna (arrugginita, rugosa)? Mentre in Belgio sto trovando spazio come (e forse anche in qualità di) autrice estranea alla cultura dominante e al suo canone artistico, come sono diventata in italiano dopo più di una decina d’anni di spostamenti?

In questa rubrica condivido le parole nuove che ho incorporato e mi auguro che questo non serva solo a me.

 

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Scrivo, traduco e combino teatro, performance, storytelling e installazioni in lingue diverse. Nel mio lavoro mi interessa soprattutto ricercare come il linguaggio fa il contesto e viceversa. Ho lavorato in ambito socio-artistico a Beirut, al Cairo, a Forlì e ad Anversa, spesso con persone migranti e rifugiati politici. All’empatia e alla credibilità come valore giuridico nella valutazione delle storie di vita dei richiedenti asilo ho dedicato "Performing the self: the interview"(spettacolo/installazione/pubblicazione - con Elena Mazzi, 2017). Ho una laurea in Lingua e letteratura araba (Venezia) e sto concludendo un Master in Teatro (Maastricht).