Cronaca di una notte di fine estate

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Sabato 10 settembre. Noi cinque amiche storiche del Liceo siamo tornate tutte dalle vacanze e decidiamo di vederci. L’occasione è una visita guidata alla villa di Ivo Sassi, aperta per la prima volta al pubblico. La guida è una di noi. È preparata, appassionata, trascorriamo un’ora interessante e piacevole e un’altra ora a bere vino di Oriolo dei Fichi. La giornata potrebbe anche finire così ma abbiamo la serata libera e decidiamo di approfittarne. Marcella, l’amica romagnola di origine ma bolognese di adozione, propone di andare a Ravenna. Cena alla Darsena POPUP e poi spettacolo di danza del Festival Ammutinamenti, previsto per le 22. È ancora presto e io ho un desiderio. Una curiosità.

Ho letto del Festival dei Calanchi e delle Argille Azzurre, alla sua prima edizione. Sabato 10 settembre, alle ore 19, è prevista l’inaugurazione di una collettiva nei locali delle Ex Terme e Ristorante San Cristoforo. Un ristorante abbandonato negli anni ‘80, con i tavoli ancora apparecchiati. L’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela scappare e faccio la proposta.

– Dov’è, esattamente? – chiedono le amiche.

Passo una buona mezz’ora a cercare la posizione esatta, senza successo. Quando sto per rinunciare, finalmente trovo qualcosa. Fonti San Cristoforo, poco prima di Brisighella. Chiuso temporaneamente, dice Google. Sono convinta che l’ex ristorante non possa essere troppo lontano.

 

 

La mia idea piace, soprattutto adesso che sappiamo in che direzione andare. Due di noi si defilano per impegni familiari, una deve occuparsi del cane. Non siamo sicure che sarà gradito dove andremo, quindi la accompagniamo a casa, con la promessa di recuperarla al ritorno prima di andare a Ravenna, o comunque di aggiornarci via WhatsApp di lì a breve. Rimaniamo io e Marcella, l’amica giramondo, che non si scompone all’idea di fare due viaggi in direzioni opposte nel giro di poche ore. Si rivelerà la compagna di viaggio ideale per questa scampagnata durante la quale niente andrà come da programma. Sarà il rientro dalle vacanze, sarà che il tempo è ancora buono, sta di fatto che l’idea di girovagare un po’ per la Romagna ci entusiasma.

Bene. Si parte. Il mio cellulare è scarico, sfrutto la maggior parte della carica rimasta per portarci a destinazione. Troviamo la strada molto facilmente, anche grazie anche alle segnalazioni posizionate nei punti strategici dagli organizzatori.  Sulla statale per Brisighella, svoltiamo prima a destra in via Pideura poi in via San Cristoforo e dopo pochi chilometri siamo arrivate. Parcheggiamo di fianco al ristorante. Controlliamo l’ora: le 18.30. È un po’ presto ma abbiamo un programma da rispettare e decidiamo di scendere e chiedere se la mostra si può già visitare. Ci accoglie Matteo Zauli, l’organizzatore del Festival, che ci saluta calorosamente.

– Arrivare troppo presto significa rischiare di dover lavorare – ci avverte.

– Nessun problema – rispondiamo.

Ma i volontari sono tanti e di noi non c’è bisogno. Matteo ci lascia entrare.

– La mostra è pronta ma manca una mela. Verde. Sta arrivando – ci dice.

Io e Marcella ci guardiamo. La situazione è abbastanza assurda da conquistarci all’istante. Entriamo, prendiamo il foglio di sala e facciamo un giro. Il posto è surreale. Fatiscente e decadente. Bellissimo. Sulla nostra destra, una collezione di bottiglie di alcolici vintage, che non fa parte della mostra ma potrebbe. Su una parete, un poster delle feste medievali di Brisighella degli anni ‘80. Gli anni “buoni”, rimasti impressi nella mia mente di bambina, all’epoca. L’arredamento si sposa bene alla modernità della maggior parte dei pezzi esposti. Mentre ancora esploriamo l’ingresso e individuiamo la scultura di quel genio di Andrea Salvatori dove andrà posizionata La Mela Verde, ci raggiunge Matteo Zauli che regala a noi e a un altro gruppetto di persone, anche loro giunte con un po’ in anticipo, una visita guidata. Nella sala principale, la visione. Davanti a una parete con un magnifico trompe l’oil rappezzato con lo scotch, che raffigura una veranda piena di piante, è adagiato Lacoste, un pezzo di Marco Ceroni. La coda di un coccodrillo in ceramica. La domanda che sto per fare è anticipata dalla spiegazione della nostra guida. Il coccodrillo, con i calanchi, c’entra. E anche molto. I calanchi si sono creati quando la depressione padana era occupata dal mare. A testimonianza, c’è la presenza di numerose specie fossili marine, principalmente molluschi. Ma non solo. Fu ritrovato anche lo scheletro di un coccodrillo. Il ritiro delle acque qui è relativamente recente, ecco perché la montagna è morbida, giovane, ed ecco è stato possibile scavarla e trasformare la piccola città di Faenza in un polo ceramico di livello internazionale. È la storia della nostra zona, del nostro passato e l’ascoltiamo come se fossero la favola della buonanotte.

 

 

Si fanno le 19.30 ma non abbiamo nessuna voglia di andarcene. All’ingresso della mostra, ho preso la brochure del Festival e leggo, ad alta voce:

Ex Ristorante San Cristoforo. Ore 19.00: Azzurro fragile, installazione con opere di Sergia Avveduti, Gaia Carboni, Jacopo Casadei, Marco Ceroni, Silvia Chiarini, Giovanni Pini, Andrea Salvatori, Marco Samorè. Ore 20.30: Musica e vino tra i calanchi e la storia. Una serata per riscoprire le terme di San Cristoforo, degustazione a cura di Ente Tutela Vini di Romagna, con intervento musicale di Alvio Focaccia (fisarmonica) e Franco Randi (chitarra).

Guardo la mia compagnia di avventure, speranzosa.

– Potremmo restare – azzardo.

– Fammi telefonare – mi risponde.

Mentre Marcella chiama l’amica rimasta a Faenza per avvertirla del cambio di programma, chiedo informazioni sul concerto. Mi dicono che “il chitarrista suonava qui negli anni ’60, proprio nella pista da ballo qui di fronte”. Pista da ballo? Al nostro arrivo abbiamo notato uno spiazzo davanti al ristorante ma non abbiamo approfondito. Attraversiamo la strada e ci ritroviamo dentro un luogo incantato circondato dalla boscaglia. Una fila di lucine appese agli alberi ne delimitano il perimetro e ci danno l’impressione di aver fatto un salto indietro nel tempo. Qui, negli anni ’60, si ballava. Si ballava di brutto. È deciso, restiamo.

Resta solo da occupare l’oretta che ci separa dall’inizio del concerto. Ci viene suggerito di percorrere una cinquantina di metri sulla strada verso lo svincolo per Brisighella per trovare la fonte di acqua termale. Dove, sempre negli anni ’80, un personaggio in camice bianco distribuiva bicchieri di acqua termale. Miracolosa. A una lira l’uno. Questo dettaglio ci lascia un po’ perplesse. Noi c’eravamo, negli anni ’80, e una moneta da una lira non l’abbiamo mai vista, al massimo, una da 5 o da 10.

– Forse costava 10 lire – dice Marcella.

– O forse non erano gli anni ’80 – dico.

Poco importa, la nostra curiosità è al massimo, penseremo più tardi a eventuali dettagli di tipo storico. A causa di uno smottamento del terreno, la fonte è stata nascosta dalla vegetazione molti anni fa. Non sappiamo quindi cosa stiamo cercando esattamente, nessuna di noi ha mai sentito parlare di questo posto. Camminiamo fino a incontrare un’apertura su un prato alla nostra sinistra. Entriamo. In mezzo c’è un casottino in muratura in rovina con alla base due bei volti di donna in terracotta. Dalla bocca di uno dei due, esce un piccolo tubo. Ci siamo. Facciamo uno sforzo per immaginare come doveva essere in piena funzione. Alziamo la testa. Sopra di noi, i calanchi di Castel Raniero, ripresi in mille dipinti e foto, a strapiombo sul prato.

Torniamo sui nostri passi, si sono fatte le 20 e il posto è ormai pieno di persone. Ci sono anche molti amici, alcuni non li vedevamo da un po’ e ci buttiamo nelle chiacchiere. La frase che ricorre più spesso è “ma quanto è bello sto posto?”. Le facce sono sorridenti, distese. Si sta proprio bene, qui. L’amica rimasta a Faenza, contattata dopo vari tentativi causa assenza di campo, decide di raggiungerci solo per l’ultima parte del programma, che a questo punto è radicalmente cambiato. Non possiamo proprio andare via.

Nel frattempo, hanno cominciato ad allestire i tavoli per la degustazione di vini. Il sommelier fa su e giù tra la pista da ballo e lo sgabuzzino del ristorante. Ha la giacca nera sul grembiule lungo, nero, è elegante e ha una faccia. Lunga, d’altri tempi.

– È un po’ come stare dentro Hotel California. Adesso salterà fuori che la metà dei presenti sono in realtà fantasmi – dico.

– Ah, perché, Hotel California parla di un hotel pieno di fantasmi? – mi risponde Marcella.

– Boh, credo. Parla di un hotel in mezzo al niente e di un barman un po’ strano. Abbiamo tuti gli elementi, mi pare.

– Il sommelier potrebbe davvero essere un fantasma, è un po’ smunto.

 

 

Il sole è calato, la luna è spuntata proprio dietro il monte. La pista è piena, c’è il discorso del sindaco, vengono stappate le prime bottiglie. I musicisti iniziano a suonare. È tutto giusto. Le sedie di paglia un po’ barcollanti sulla pavimentazione un po’ sconnessa, la fila di lucine tra gli alberi, i lumini a terra. L’illuminazione è scarsa ma sufficiente, perfetta per l’atmosfera. Ci lasciamo intrattenere dalla musica popolare che esce dalle mani sapienti di Alvio Focaccia e Franco Randi, si chiacchiera con le amiche, si fanno 2 o 3 giri al tavolo della degustazione. Un personaggio vestito di nero con kajal agli occhi che sembra uscito da un video dei Cure, perfettamente in linea con il pubblico alternativo della serata, ci fa notare che stiamo alzando un po’ la voce.

– Mi sa che siete un po’ ubriache – ci dice.

– No, solo entusiaste – rispondo.

Per darci un contegno, ci allontaniamo dal vino e ci avviciniamo ai musicisti. Il più anziano dei due, quello che suonava qui negli anni ’60, molleggia sulle ginocchia come un ragazzino. Ci perdiamo a fare calcoli sulla sua età, concludiamo che forse suonava qui alla fine degli anni ’60 in giovane età ma che di sicuro non può avere meno di 70 anni. Alla fine del brano, diamo il via a un applauso sincero e ammirato.

Balliamo, addirittura. Ho pochi secondi per capire come ribaltare la dinamica del valzer per fare da “uomo” a un’amica che vuole provare e, finché restiamo sul valzer, me la cavo. La pista è un po’ spaccaginocchia ma ce la facciamo andare bene.

– Sai fare anche la polka, da uomo? – mi chiede un’altra amica.

– Quella, manco da donna – rispondo.

I musicisti attaccano una Cumparsita, le amiche partono alla ricerca di un partner per permettermi di tirare fuori i miei trascorsi tangueri ma io imploro pietà. Anche perché, preciso, il tango romagnolo non lo so ballare, solo quello argentino. La frase mi esce più snob di quanto vorrei ma è la verità. Tra i tanti balli che ho provato, non c’è il liscio romagnolo. Anzi, il folk romagnolo, come si dice adesso, snobbato dalla mia generazione. A torto o a ragione non saprei, ma tant’è. Invece, anche questo fa parte delle nostre radici.

A bordo pista, compiaciuto, c’è il Signor Ranieri, proprietario del ristorante, insieme a suo figlio. Abita sopra il ristorante, costruito da suo nonno negli anni ’20. Un’amica ci dice di ricordare quando, bambina, veniva qui con il nonno alle premiazioni delle gare podistiche. Dentro, ho visto varie coppe di motoraduni. Devono essere successe molte cose in questo ristorante, in questa pista da ballo. Chissà come deve essere, abitare accanto al tuo passato, poterlo andare a trovare tutti i giorni. Sarà un bene o un male? I ricordi belli saranno più di quelli brutti? La nostalgia servirà più ad apprezzare o a rimpiangere quello che è stato? Non avrò occasione di chiedere, troppo presa a gustarmi la serata.

Comincia a fare freddino, abbiamo fame, dobbiamo andare in bagno. Ho i piedi gelati, indosso ancora i sandali dal pomeriggio, quando ancora pensavo di avere il tempo di passare da casa a cambiarmi prima della serata. Che ingenua. Decidiamo di andare. Dovevamo restare solo mezz’ora e invece sono già passate più di tre ore. Prima però mi assicuro che la serata stia volgendo al termine perché non voglio perdermi niente. Matteo mi dice di sì ma aggiunge, con una punta di rammarico: “avrei voluto fare una festa. Forse avrei dovuto.” Gli rispondiamo in coro che sì, forse, ma che è stata lo stesso una bellissima serata.

Mentre ci avviamo alla macchina, ho la sensazione che la riscoperta di questo posto non si fermerà qui e che ritorneremo per altre iniziative, prima o poi. Do un ultimo sguardo alla pista, all’albergo. Sono ancora in fissa con Hotel California e mi chiedo se, a una certa ora, dopo che anche l’ultimo degli organizzatori se ne sarà andato e il Signor Ranieri avrà chiuso a chiave la porta del ristorante, i fantasmi degli ospiti di un tempo usciranno per un ultimo giro di valzer e di China Martini.

 

P.S. Se vi state chiedendo della mela, vi rassicuriamo. È arrivata poco dopo l’apertura ufficiale. Il morso, un vero e proprio happening, non sappiamo chi gliel’abbia dato. Sarà stato un fantasma…