In Memory of, il corto di Mattia Bioli

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La fotografia di un uomo senza volto, una nera figura su sfondo rosso destinata a sbiadirsi, a decomporsi. Esattamente come la fotografia, esattamente come il film stesso. L’opera cinematografica di Mattia Bioli In Memory of è un’interessante riflessione sul tema dell’evanescenza del ricordo. 

“Tutto è nato da un pensiero abbastanza ironico: quando il ricordo che le persone hanno di noi e l’ultima immagine che ci ritrae scompare, è sostanzialmente come se non si fosse mai esistiti”, racconta l’autore. “Da questo concetto ho strutturato un soggetto e poi, insieme allo sceneggiatore Riccardo Simoncini, una narrativa che potesse rappresentare questa idea”. Un’idea che emerge dal punto di vista tecnico oltre che narrativo: “Ho voluto creare un forte legame con l’immagine”, spiega Bioli, “nel senso che l’intero corto è stato girato con una tecnica sperimentale innovativa: in una semplicissima stanza con una luce, ho girato la ghiera della messa a fuoco della macchina”.

Tutto nasce da una fotografia in bianco e nero: un uomo, in piedi, il volto ormai cancellato, irriconoscibile. “Mi sembrava sbagliato fare una fotografia finta”, racconta il regista. “Così ho comprato la fotografia di una persona su ebay, come quelle che si trovano ai mercatini dell’usato, che ti svendono o ti regalano. Io ho comprato la fotografia di una persona che mi piaceva e poi l’ho realmente distrutta”. 

Una distruzione che da immateriale, come quella della memoria, si fa dunque materiale, coinvolgendo tutte le componenti del corto: la fotografia, la musica, il film stesso. Infatti, così come il ricordo di una persona tende a sfumare nella mente di chi ne conserva la memoria, così anche lo stesso film tende a svanire, a degradarsi. “Mi è piaciuto lavorare su una parte metacinematografica”, spiega Bioli, “ in cui lo stesso corto, durante la sua riproduzione, si distrugge. Addirittura negli stessi titoli di coda, i nomi di tutte le persone che hanno lavorato al film si degradano”. Un effetto dovuto a una specifica tecnica cinematografica, nota come “datamosh, una tecnica nata negli ultimi cinque anni, che permette di distruggere a livello organico il corto. L’ho studiata, l’ho padroneggiata affinché le immagini prendessero una forma che preferivo io”. 

Un corto privo di dialoghi, ma perfettamente in grado di parlare, di raccontare, di far riflettere. A contribuire anche il colore – un rosso capace di dare vita a “un mondo parallelo, un po’ sospeso, pur rimanendo concreto” – e la musica, anch’essa destinata a distruggersi. “Per questa ho lavorato con un bravissimo artista, Enrico Tosi, affinché i suoni si integrassero perfettamente con le immagini e il suono distruttivo andasse a creare un’armonia sonora. Si è lavorato affinché questa distruzione creasse musicalità”.

Il corto prosegue il suo percorso festivaliero: dopo Ibrida – Festival delle Arti Intermediali di Forlì, sarà presente al MalatestaShort Film Festival di Cesena