Il cinema delle doppie alternative

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Gwyneth Paltrow in Sliding Doors di Peter Howitt

 

Quante versioni diverse di una stessa storia possono esistere? Pressoché infinite, quanti sono i punti di vista da cui la si racconta. Questo è il grande insegnamento lasciatoci da Akira Kurosawa. E allora perché limitarci a raccontare una sola versione dei fatti? Perché non raccontare due storie, parallele ma differenti, che si intersecano ma si biforcano, che si assomigliano ma si distinguono?

Questa è la domanda che si sono posti una serie di registi, in particolare a cavallo degli anni Novanta. È stato proprio allora che i teorici hanno cominciato a parlare di narrazioni modulari, vale a dire narrazioni cinematografiche (e non solo, a onor del vero) che seguono uno schema non lineare ponendosi in un atteggiamento di sfida nei confronti del pubblico. Sulla scia di grandi nomi di studiosi come David Bordwell, Allan Cameron, Warren Buckland e Thomas Elsaesser la teoria delle narrazioni modulari è andata articolandosi in una serie complessa di definizioni volte a spiegare di volta in volta un tipo preciso di narratività. Così, quando quest’estate sono inciampata in Linee Parallele, il film Netflix diretto da Wanuri Kahiu, ho cominciato a ripercorrere una serie di tappe e di visioni collegate. In effetti, nel vedere la storia di Natalie che si biforca in due linee parallele per l’appunto, in due realtà verosimili eppure impossibili nella loro compresenza, non può che tornare alla mente Sliding Doors di Peter Howitt del 1998.

 

Linee Parallele, il film diretto da Wanuri Kahiu

 

Ma andiamo con ordine. Cosa accade in Linee Parallele? Natalie è una giovane studentessa universitaria che una sera decide di avere un rapporto occasionale con il suo migliore amico Gabe. Qualche giorno dopo ad una festa, la giovane, dopo aver realizzato di avere un ritardo, si chiude nel bagno con la sua migliore amica per fare il test di gravidanza. Questo è quello che in gergo gli sceneggiatori chiamerebbero il primo turning point di una storia, il primo momento in cui scegliere che direzione prendere tra le infinite possibilità. “Normalmente” un film opta per una sola opzione. “Il film visto e ascoltato durante una proiezione è solo uno dei possibili risultati del percorso creativo del cinema”, scrive Philipp Schmerheim nel suo saggio dedicato alle narrazioni modulari. Non è però questa la decisione presa da April Prosser, la sceneggiatrice di Linee Parallele, che decide che da quel momento in poi lo spettatore sarà messo davanti a due linee temporali: da un lato la vita di Natalie che scopre di essere rimasta incinta quella notte, dall’altro la vita di Natalie che tira un sospiro di sollievo per il falso allarme. Un solo personaggio, una sola vita, ma due tagli di capelli e uno stile differenti che identificano due strade possibili, nelle quali i destini di madre e donna di successo si intrecciano senza escludersi a vicenda. Gli attori e gli elementi che li legano restano i medesimi, ma cambiano i contesti e le occasioni.

 

Sliding Doors di Peter Howitt

 

Una scelta simile fece Peter Howitt nel 1998 quando scrisse e diresse Sliding Doors. Helen, giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni, si precipita alla fermata della metropolitana in seguito al suo improvviso licenziamento. A questo punto Peter opta per un montaggio che pone Gwyneth Paltrow in due luoghi differenti della stessa scena: sulla banchina della metro, scoraggiata per averla persa per un soffio, e sulla metro, stanca ma felice di essere riuscita a prenderla al volo. Da qui, la seconda Helen arriverà a casa in tempo per scoprire il tradimento del suo fidanzato Gerry, mentre la prima arriverà troppo tardi, quando l’amante ha appena lasciato l’appartamento. Come Prosser, anche Horwitt di fronte al suo turning point decide di non scegliere, ma di mostrare allo spettatore due storie parallele: ancora una volta stessa protagonista, diversi tagli di capelli, stessi attori ma contesti e occasioni diverse che invitano chi guarda a una riflessione sui concetti di destino e casualità.

Questo è quello che in letteratura gli studiosi hanno definito più propriamente parallel forking-path films: si tratta in sostanza di film che raccontano due o più storie in parallelo determinando destini differenti per i personaggi. Insomma, film che giocano sulla domanda “Che cosa sarebbe accaduto se le circostanze fossero state diverse?” e che, molto spesso, si divertono a non offrire una risposta, lasciando aperti i propri finali alla libera interpretazione di chi guarda.

 

Melinda e Melinda di Woody Allen

 

Tornando a Sliding Doors, rivedendolo mi sono accorta di un particolare: ad un certo punto del film, Helen afferma “Gerry ti ho fatto solo una domanda, non c’è bisogno di diventare Woody Allen”. Trovo così affascinante la capacità dei film e dei registi di tessere tra loro fili senza in realtà averlo premeditato. Dico così perché Melinda e Melinda di Woody Allen è uscito nel 2004, quindi in realtà ben 6 anni dopo il film di Howitt, che pare a tutti gli effetti volerlo citare prima ancora di sapere della sua esistenza. Credo che Woody Allen aggiunga però un importante tassello a questa riflessione facendo del suo film un vero e proprio saggio sul cinema e sulla narrazione in generale. Melinda e Melinda infatti non mette solo in scena due storie che condividono i medesimi elementi ma con diversi risvolti, ma porta sul grande schermo l’atto stesso della creazione narrativa. Il film inizia infatti con quattro amici al bar: uno di loro narra di un episodio realmente accaduto e, a partire da questo, i due scrittori Max e Sy costruiscono due storie differenti, modificate dai rispettivi filtri comici e drammatici. Se in una Melinda è una donna sola, divorziata, assassina ed incline al suicidio, nell’altra Melinda è una donna single entusiasta della vita. La bravura di Allen è quella di riuscire a riflettere contemporaneamente sul cinema e sulla vita, come due facce della stessa medaglia, mostrando come in entrambi comicità e drammaticità si intrecciano indissolubilmente.

“Nella vita di tutti i giorni”, scrive sempre Peter Schmerheim, “le cose accadono e raramente ci sono modi per farle accadere (di nuovo) in maniera diversa, anche se siamo in grado di immaginarle. […] Così anche i film sopprimono racconti alternativi della stessa storia a favore di una versione finale”. Insomma, siamo talmente abituati a vedere i film come qualcosa di altro dalla realtà, che non ci rendiamo conto di quanto in verità essi si assomiglino. E le forking-path narrative non sono altro che lo specchio della nostra immaginazione, all’interno della quale le nostre strade si biforcano ogni volta che dobbiamo operare una scelta. Nel nostro caso, come in realtà anche nella maggior parte dei film, non ci è però dato sapere come sarebbe andata a finire.