La voce della casa: Elizabeth Barrett Browning, poeta

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Ci sono città, come Firenze, che mi risultano estenuanti. Recarvicisi mi impone la ricerca meticolosa di luoghi protetti dove i sensi non vengano barbaricamente invasi. Semmai pervasi.

Qualche settimana fa ho suonato al campanello di Casa Guidi che erano da poco suonate le 15.00.

La si trova in Oltrarno, sulla sponda meridionale del fiume, in uno slargo che all’osservatore poco attento passerebbe quasi inosservato se non per la colonna che si staglia nel mezzo. Se rivolgete lo sguardo ai palazzi dell’adiacente Via Maggio troverete una targa che recita: “Qui scrisse e morì Elizabeth Barrett Browning che in cuore di donna conciliava scienza di dotto e spirito di poeta e fece del suo verso aureo anello fra Italia e Inghilterra pone questa memoria Firenze grata –1861”.

La prima volta che udii il suo nome fu nella sequenza iniziale del film di Franco Zeffirelli, Un tè con Mussolini dove una fiera e altera Maggie Smith, dichiara “Siamo qui per rendere omaggio a te Elizabeth Barrett Browning, vera gentildonna inglese”.

In fin dei conti forse non tutti ricordano che a partire dall’inizio del diciannovesimo secolo fu proprio la comunità inglese ad eleggere Firenze capitale artistica del mondo e che i fiorentini ne appellarono i membri con gli epiteti di “angloebeceri” e “scorpioni”.

Fu proprio Elizabeth a conferire all’appartamento l’appellativo di Casa Guidi, riprendendo il nome del palazzo del XV secolo in cui questo era ubicato.

Fiorentini di adozione, dunque, Robert ed Elizabeth entrambi poeti, scelsero alfine di rifugiarsi qui, a pochi passi da Palazzo Pitti, scrivendo versi a favore della causa risorgimentale e ricevendo nel proprio salotto artisti e intellettuali dell’epoca.

Casa museo, dunque.

 

 

Non so cosa voi ne pensiate ma spesso le case museo sanno di gelido e di chiuso e gli manca quel disordine di vita.

Virginia Woolf, adorabile compagna di flânerie, nel suo taccuino diario definì la casa di Carlyle, al 24 di Cheyne Row, come “rovinata” e aggiunse che “ha già l’aspetto di qualcosa conservato a forza, in contrasto con le rispettabili case signorili circostanti”.

In particolare in Italia riscontro da sempre questa volontà (spesso invero necessità per arginare comportamenti vandalici) di proteggere gli arredi finendo però con l’annoiare i libri dietro le vetrinette e irrigidendo i letti dietro cordoni di sicurezza. In Inghilterra, invece, le visite alle case museo costituiscono per me un fanciullesco divertimento e un’illusione, molto appagante, di realtà.

Ho in mente visite che sono diventate esperienza come quella a The Kilns, residenza di C.S Lewis a Oxford, dove studenti e ricercatori possono dormire mangiare e condividere le stanze che furono un tempo abitate dallo scrittore e da suo fratello Warren.

Oggi le stanze un tempo vissute dai Browning soddisfano il bisogno di un tempo dell’intimità.

La domanda tempestiva di un visitatore sull’originalità degli arredi mi causa immediato fastidio.

La signora che accoglie i turisti risponde con garbo sapiente che alcuni pezzi d’arredo, come lo specchio dorato del salone, furono riacquistati sul mercato antiquario e che nel restaurare la proprietà, il Landmark Trust e l’Eton College, hanno cercato di ispirarsi all’atmosfera dell’epoca così ben resa dal pittore George Mignaty in un quadro a olio, oggi appeso nel salone.

Che importa del gheriglio quando il guscio che ha ospitato il fragile corpo di Elizabeth ce lo restituisce senza bisogno di farne culto e memoriale?

La casa, scrive la Woolf, “è campo di battaglia, uno scenario di fatiche, sforzi, perpetua lotta“.

Cosa mai importa se poche originali spoglie di quella vita sopravvivono in tutti gli oggetti?

Non cercate nei fossili la voce della casa.

In molti trovano quello che cercano, vanno nei cimiteri e nelle case museo per verificare che i morti se ne stiano al loro posto: nelle teche, nei busti o nei cataloghi.

 

 

Ho chiesto dove fosse la cucina, dove stesse la servitù. Cosa cucinavano per i Browning? Lo immaginavate che per lo più prendevano da asporto in una trattoria nelle vicinanze? Mangiava come un uccellino Elizabeth. Nella sua reclusione ella evade dalla soggezione al dolore ascoltando i  suoni delle voci che giungono dalla finestra, scrivendo dell’Arno dorato al tramonto, assumendo oppio e laudano e mangiando frutta fresca, qualche noce. “But when its shade is o’er you laid, Turn round and pluck the fruit!scrisse in The Romaunt of Margret.

Anche Virginia Woolf si accese per le virtù artistiche della Browning e amò questa misteriosa creatura invalida.

Di lei leggete Flush, opera di suprema ironia in cui la donna intellettuale è vista dagli occhi del suo cocker spaniel.

Immaginatela mentre preleva dal suo tea caddy in madreperla (l’originale è proprio lì sul tavolino del salone) foglie di tè che sorbisce molto forte, reclusa nella semi oscurità che lenisce il dolore e poi “Mi guardaron due occhi – io li guardavo./ Due molli orecchie le mie guance asciugando./ Come un’Arcade in primo io sobbalzai/ Sorpresa all’alba dal Dio-capra; e infine/ Flush ravvisai nella folta figura/ Che il pianto mi tergeva, e superai/ Pena e sorpresa, ringraziando Pan/ Che ispira amore ad umil creatura”.

 

 

La custode dei segreti della casa mi apre una porticina nel salone, dipinta in trompe-l’œil e mi invita a entrare: “un tempo qui c’era la stanza della servitù”, ma non della fedele Lily Wilson di cui Margaret Forster ha scritto in Lo sguardo di Lily (edizioni La tartaruga).

La stanzetta claustrale è sul soppalco ed era abitata dal cameriere Ferdinando Romagnoli e poi da coloro che lo succedettero.

Chi ne avesse la possibilità può affittarla e dormirci.

Io sceglierei senz’altro quella, di stanza, non la padronale dove Elizabeth partorì e dove poi si congedò dalla vita ad appena 55 anni.

Non ci pensate che anche quello era un posto dove, scrive la Woolf, “si mangiava e si beveva, con gente che entrava e usciva, posava a terra valigie, lasciava pacchi; gente che strofinava e teneva pulito e combatteva contro sporcizia e disordine”.

La voce della casa è anche lì, nel saper tirare fuori da quel che ti mostrano della loro vita, tutto il resto.