Intervista a Rodrigo Diaz, Direttore del Festival del Cinema Ibero- Latino americano di Trieste

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Unico evento in Italia interamente dedicato alla cinematografia latino-americana, con i suoi 37 anni di storia è uno dei Festival più longevi in Europa: stiamo parlando del Festival del Cinema Ibero- Latino americano, arrivato alla sua 37esima edizione, svoltasi a Trieste, al Cinema Teatro Miela, dal 12 al 20 novembre.

Lei è Direttore artistico dal 1996: cosa è cambiato in questi anni riguardo le opere?

Il cinema latino-americano, come ogni cinematografia di ogni latitudine, si è evoluto al ritmo del cambiamento dei tempi. Fedele al riflesso della realtà, i cineasti non sono rimasti inchiodati alle problematiche degli anni ’60/’70, quando il cinema latino americano rappresentava un boom in Europa con grandi registi, importanti intellettuali, cinematografie che hanno vinto un po’ ovunque, come quella brasiliana, il cinema novo… Penso al boliviano Jorge Sanjinés, il cileno Miguel Littín, ai brasiliani Joaquim Pedro de Andrade e Nelson Pereira dos Santos, i cubani Tomás Gutiérrez Alea e Julio García Espinosa, il messicano Jorge Fons Pérez. I tempi sono cambiati e il cinema ha camminato con i tempi, per cui il cinema latino-americano è diventato più variegato di generi con tematiche che spaziano dal sociale alla commedia. Sicuramente è più ricco di prima, perché offre una varietà enorme di tematiche, racconti che altrove (spesso) vengono ignorati. Il cinema asiatico, per esempio, è fatto molto bene ma è per il consumo immediato. Se una cosa non è cambiata, ed è un bene, è che la maggior parte di cineasti creano storie che ti invitano a riflettere. Non puoi immagazzinare, ci devi riflettere per bene, perché ti invita a fare ciò. Questo non è cambiato, ed è molto importante perché si parla di una caratteristica all’interno del patrimonio dell’America Latina.

Durante la selezione delle opere viene prestata particolare attenzione ai Paesi geograficamente di minori dimensioni ed economicamente più limitati. Quanti film avete ricevuto dal cinema indipendente e dai talenti emergenti?

Quest’anno sono stati presentati 102 film, di cui 79 sottotitolati in italiano.
Forse è troppo ma dev’essere presente un po’ tutta l’America Latina. Dobbiamo tenere presenti anche luoghi che non hanno la possibilità di esser visti al di fuori della propria frontiera, o fuori dell’America Latina. L’evento dev’essere rappresentativo. Questo, a volte, significa dover sacrificare un’opera importante, di un Paese con un’industria cinematografica e programmare al suo posto un’opera di un Paese che ha pochissima visibilità da sempre, come il Panama, la Costa Rica, Nicaragua, Guatemala, Honduras, El Salvador… In alcuni di questi paesi, fino a poco tempo fa, una priorità brutale era Oggi ci sono politiche in materie culturali, politiche in materia cinematografica e in ogni paese dell’America Latina c’è un incontro, più di una volta all’anno, in cui è possibile far incontrare cinematografie diverse che in questo modo si uniscono, e solo così si riescono a produrre opere che, se fossero concepite solo nel singolo paese, come l’Uruguay, un paese colto ma che non ha un mercato per coprire le spese una volta che il film entra in un circuito, non potrebbe realizzare le sue opere. Spesso il cinema uruguayano co-produce con l’Argentina, ma in questi anni, paesi come il Messico, il Cile, la Colombia e la Repubblica Domenicana, hanno delle politiche, degli eventi, che permettono e facilitano la coproduzione con paesi che non hanno un mercato interno. In questo modo l’America Latina produce una quantità enorme di opere.

 

 

 Vengono svolte delle repliche durante l’anno?

Sì, perché riteniamo siano importanti, fondamentali. Le tappe sono Udine, Trento, Verona, Milano, Genova e Roma, proprio per farlo conoscere a più pubblico possibile. Sarebbe un peccato che questi prodotti, dopo tanto lavoro svolto soprattutto dai traduttori e dagli interpreti per i sottotitoli, vengano visti solo una volta.

Il Festival valorizza inoltre la memoria, in tutti i sensi, attraverso retrospettive, documentari storici, antropologici, etnografici e sui fenomeni migratori (con particolare attenzione al riscatto delle origini sia degli italiani emigrati, sia degli ebrei in America Latina). Tra la notte del 9 e il 10 novembre, sulla facciata della Sinagoga di Trieste, è apparsa una scritta antisemita. Allora, è necessario un Festival del genere visto che il mondo sta andando da un’altra parte…

Indubbio. Perfino la Democrazia è una vittoria che non deve darsi sempre scontata. La battaglia per affermare e consolidare determinati valori e princìpi è quotidiana e uno deve farsi in quattro per dare realmente quello che può offrire: un’opportunità per il dibattito, riflessioni sociali, una formazione.
Non esistono ricette o verità in tasca, ognuno con la propria cultura crea la propria elaborazione rispetto al nuovo che sta venendo proiettato.

Come mai avvenuto prima, quest’edizione è stata un “incontro”, di ieri e di oggi, di decine di intellettuali, scrittori, poeti, cineasti che hanno segnato indelebilmente la storia del nostro cinema e la storia contemporanea dell’America Latina. Che risposta c’è stata da parte della città? Le università e i giovani hanno aderito?

Trieste possiede un passato importante. Gli eventi di cinema non hanno tutta la partecipazione che ci vorrebbe. La parte logistica è sicuramente un problema presente in città: non ci sono molti parcheggi. A maggio, dopo il Festival di Cannes, replicheremo a Lubiana tramite un accordo con più ambasciate. Per quanto riguarda l’Università, c’è un impegno molto importante… Abbiamo appena sottoscritto un accordo con l’Università IULM di Milano (dopo Trieste, Udine, Padova, Cà Foscari – Venezia, Salerno). Abbiamo coinvolto diversi licei, in particolar modo il Marco Belli di Portogruaro con il progetto Contemporanea Malvinas (le isole contese tra l’Argentina e l’Inghilterra) mettendo in risalto opere in cui spiccano i valori, come la tolleranza, il dialogo, il rispetto dell’altro, che impediscono il conflitto. Le Istituzioni del Friuli-Venezia Giulia svolgono un ruolo molto importante nel sostenere gli eventi, affinché la gente torni alla normalità, possa nuovamente incontrarsi. Un contributo alle giovani generazioni, che cosmopoliti e guardare oltre il loro naso. La cosmo visione latino-americana non è tanto diversa dalla cosmo visione italiana: un ponte da alimentare sempre, che non si concentra solo durante la preparazione del Festival, ma dura per tutto l’anno.

 

 

Il manifesto di quest’anno porta la prestigiosa firma di Héctor ‘mono’ Carrasco, uno dei più importanti muralisti cileni, fuggito in Italia dopo il golpe di Augusto Pinochet e da allora residente nel nostro Paese. L’esilio è uno dei temi che ricorre spesso nel Festival (funzione politica dell’arte) e che vi accomuna.

Spesso si confondono le diverse figure: profugo, esule, emigrante. Sono figure diverse: spesso l’emigrante è un’opzione di vita, una scelta coraggiosa partire da capo in una realtà che non si conosce, con tutti i rischi, ma si pensa e si fa. Il profugo invece scappa, l’esule è colui che si deve allontanare dalla propria realtà per dissenso, una mancanza di respiro democratica, che le autorità non accettano. Essere un esule è complesso perché dipende sempre dalla provenienza e dal luogo in cui vai ad approvare. Io, nel 1974, avevo avuto da parte da parte dell’Agenzia dell’Onu per rifugiati, tre proposte: l’Argentina, l’Italia e la Svezia. Io ho scelto l’Italia perché mi sembrava l’unico Paese compatibile alla mia cultura e alla mia formazione. Un’occasione interessante per ubriacarmi di Storia e Arte. Era un’Italia più solidale, meno egoista, con una classe dirigente molto preparata (Diaz ha incontrato il Presidente Sandro Pertini), era protagonista nel Medio Oriente, un Paese importante per l’America Latina. Oggi, purtroppo, non posso dire lo stesso, ma continuo ad amarla e a promuoverla. Sto “ripagando” l’ospitalità che questa terra mi sta donando.   

Per quanti ancora non lo conoscono, come descriverebbe in quattro parole il Festival?

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Da quando ne ho memoria, questi sono i miei più grandi amori: canto, teatro, lettura e cinema. Sono una Studentessa del Corso di laurea DAMS presso l’Università degli Studi di Messina. Appassionata di storia dell’arte, letteratura, storia, musica, fotografia e di mummie, il palcoscenico ha fatto parte della mia vita dall'età di 6 anni e da allora non l’ho più lasciato, in qualsiasi veste. Allieva Regista per la Summer School alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, amo scrivere, in particolar modo poesie e racconti. Pratico volontariato dall’età di 10 anni e Gagarin è la mia prima collaborazione di scrittura come aspirante critica cinematografica.