Il portico infinito: a Bologna la danza si fa inclusione

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Simona Bertozzi e Fabrizio Favale

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La danza come strumento di inclusione sociale, come arte che vive e si riappropria dello spazio urbano dove le differenti comunità vivono la propria quotidianità. Tutto questo è Il portico infinito, il progetto ideato dai coreografi Simona Bertozzi e Fabrizio Favale, in partenza domenica 29 gennaio a Bologna nell’ambito di PON Metro.

Tutto è nato come parte di “un’iniziativa più ampia, partita dal Comune di Bologna che ha ideato due percorsi di incontri e formazione con la cittadinanza: La città che risuona, dedicato alla musica, e La città che danza, dedicato alla danza”, racconta Fabrizio Favale. “Insieme a Simona abbiamo ideato questo progetto, suddiviso in due ramificazioni, entrambe costituite da laboratori e incontri, rivolte soprattutto alle fasce fragili”.

Il progetto fa parte di PON Metro per la città di Bologna, che è “un finanziamento nell’ambito del programma operativo città metropolitane dell’Unione Europea in risposta alla pandemia di Covid-19 ed è volto a promuovere percorsi di integrazione tra politiche sociali e culturali per affrontare il tema della salute e del benessere delle persone in maniera integrata e non solo in un’ottica riparativa ma di prevenzione e promozione con attività laboratoriali oltre alla crescita e sviluppo degli apprendimenti”, specifica Simona Bertozzi.

 

 

“Questi laboratori”, continua Fabrizio Favale “avranno un esito finale tra maggio e giugno 2023, in occasione del Festival Internazionale dei Portici, dedicato a luoghi che sono stati dichiarati patrimonio UNESCO dell’umanità”.

“Si tratta della prima edizione per questo festival” aggiunge Simona Bertozzi “ci è stato chiesto di approdare con questi laboratori in un evento finale performativo abitando una zona dei portici o una zona cittadina adiacente ai portici che potesse quindi portare all’incontro tra queste comunità dentro una dimensione architettonica così importante. L’idea di partenza era quella di attivare, attraverso il linguaggio del corpo, una dimensione di benessere, di welfare, di socialità e di reciprocità. Con Fabrizio abbiamo trovato quasi subito una modalità sinergica per comporre due cammini diversi ma complementari, improntati sull’incontro, il dialogo e la trasmissione del sapere legati alla danza”.

Il progetto si concretizzerà dunque in due percorsi laboratoriali: Summer’s Dance guidato da Fabrizio Favale e Ballo 62 condotto da Simona Bertozzi.

 

Fabrizio Favale – ph Jürgen Hoge

 

“Mi piaceva l’idea di inventare una nuova danza popolare del futuro”, racconta Fabrizio “da restituire e donare alla cittadinanza e che la cittadinanza potrà anche conservare in una sorta di proprio repertorio tradizionale. L’ho chiamata Danza dell’estate, Summer’s Dance, con un sottotitolo più descrittivo che è Danza popolare dell’infinito. Si tratta di una danza, molto semplice a livello di passi e di esecuzione, che ha una struttura che va in loop: sono movimenti che potenzialmente si ripetono all’infinito. Questa danza si svolge su una fila e avviene secondo canone, una sorta di onda, come una ola da stadio. In questo modo la persona che sta dietro esegue il movimento leggermente in ritardo rispetto alla persona che sta davanti”.

“La musica scelta è il pezzo iconico di Steve Reich Music for 18 Musicians” continua Fabrizio “Un pezzo ripetitivo e anche molto evocativo: nella mia visione è qualcosa che apre verso il futuro. La coreografia è costruita in modo tale che ha una durata molto consistente perché il brano di Steve Reich dura oltre un’ora. Siccome è un lavoro ripetitivo, è difficile che una persona riesca a tenere quella durata di movimento: la coreografia è stata pensata in modo tale che le persone possano uscire ed entrare da questa fila”.

Il percorso di Fabrizio Favale si avvale inoltre di due collaborazioni: “Una con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, lavorerò con gli studenti e le studentesse per insegnare questa danza; una con la coreografa Anna Albertarelli, tra le massime esperte sul territorio regionale di lavoro con le fasce fragili, in particolare con diverse abilità o disabilità, lei sarà sempre presente per coadiuvare il lavoro con le persone più fragili”.

 

Simona Bertozzi – foto Gus Bo

 

Ballo 62 è il titolo del percorso attivato da Simona Bertozzi. 62 proprio come i chilometri che compongono i portici di Bologna. “Non appena ho iniziato a costruire Ballo 62 ho chiesto aiuto e collaborazione a Cristiana Natali, antropologa dell’Università di Bologna titolare della cattedra di Antropologia Della danza. Fin dall’inizio abbiamo cercato di fare una sorta di mappatura della città, di quelli che potevano essere soggetti attivi nell’incontro con comunità, con fragilità. L’idea era quella di andare a cercare contesti o situazioni che normalmente nel mio percorso di formazione e creazione performativa non incontro”.

“Ho immaginato così un grande ballo collettivo” continua Simona “ispirandomi a questa architettura che ha sempre rappresentato un luogo di camminamento, di incontro e di scambio. Allo stesso modo ho pensato a una sorta di processione, di cammino che attraversa la zona dei portici con diverse azioni, a partire dalla Certosa e fino al punto in cui si innesta lo stadio nell’architettura Antica antica. Da qui si arriva in Piazza della Pace, dove immagino possa terminare questa camminata con una festa finale. Ci sarà anche un musicista con cui sto collaborando, Luca Perciballi, che con il suo gruppo suonerà dal vivo”.

 

 

Gli incontri di Ballo 62 saranno diversificati tra appuntamenti aperti all’intera cittadinanza e incontri dedicati a specifiche comunità, negli spazi in cui esse si ritrovano abitualmente. “Avremo intanto un primo incontro di presentazione del progetto aperto a tutti, domenica 29 di gennaio, presso il Muvet“, racconta Simona. “Gli incontri che farò a febbraio presso Spazio Donna saranno invece dedicati a un gruppo di donne – perché la cooperativa si occupa di supportare attività di empowerment femminile – e gli incontri saranno in questo caso a numero chiuso. Siamo poi in dialogo con Approdi, un’associazione di volontariato formata da psicoterapeuti, psichiatri, medici, antropologi, mediatori culturali e operatori del sociale che aiutano i migranti e le migranti che sono appena arrivati nel nostro paese nel percorso di inserimento. E poi c’è Arte Migrante, un’associazione apartitica e aconfessionale nata nel 2012 proprio da uno studente di Antropologia della danza, che ha l’intento di creare l’inclusione attraverso l’arte. Anche con loro ci sarà un momento di scambio, condivisione e presentazione del progetto”.

“Ultimo soggetto con cui siamo in dialogo”, aggiunge Simona, “è Vicini D’istanti, un laboratorio di cucito nato 2016 nella stanza di un centro di accoglienza di richiedenti asilo che si è poi trasformato in vera e propria sartoria. Con loro stiamo dialogando a proposito della dimensione artigianale: loro produrranno costumi, i gadget e gli elementi che verranno indossati durante la performance. Inoltre divulgheremo nella comunità che ruota intorno a questa sartoria le informazioni su questi laboratori”.

Non mancheranno di certo gli incontri aperti a tutta la cittadinanza, che si terranno non solo presso il Muvet, ma anche ad “Almadanza, dove avremo anche un incontro con gli adolescenti della scuola, e il Das dove, per chi vorrà partecipare, ci sarà una condivisione di tutto il percorso. Tutto questo dovrebbe andare a formare il gruppo di partecipanti che vorranno continuare gli ultimi incontri maggio e giugno per comporre l’evento performativo da presentare nel Festival”.

Infine, aggiunge Simona “ci sarà anche un percorso con gli studenti di Antropologia: gli incontri verranno seguiti da un gruppo di studenti e studentesse che parteciperanno ai laboratori e creeranno un report delle attività con interviste e approfondimenti, di modo che ci sia un lascito di questo percorso non sono legato alla danza finale, ma anche più scientifico”.

Due percorsi differenti, ma una medesima visione improntata all’incontro, al dialogo, alla comprensione dell’altro.

“La danza fa parte di quel tipo di pratiche che non hanno bisogno di parole e di un apparato concettuale per poter esistere, perché si reggono sul movimento”, riflette Fabrizio Favale “È qualcosa di muto e tuttavia in grado di significare quello che probabilmente non è possibile dire altrimenti. E quindi ha una vastissima capacità di accogliere la diversità, i molti caratteri, corpi e sfumature emozionali senza bisogno di doversi spiegare o dover giustificare la propria specificità. È una di quelle cose che l’umanità fa istintivamente e da sempre, che produce un tipo di inclusività istintiva e naturale. Non è da dimenticare il fatto che le danze popolari erano proprio un’occasione di incontro, di conoscenza tra le persone, un modo di uscire dalla quotidianità”.

“La danza rappresenta sicuramente uno strumento privilegiato per l’innesco di dinamiche inclusive e universali“, conclude Simona “che dà ad ogni corporeità, esperienza e provenienza la possibilità di esprimersi, di trovare un’affermazione identitaria, qualsiasi essa sia, e una dimensione dell’incontro, dello scambio”.

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