Le Rane di Aristofane con coro forlivese. Conversazione con Marco Cacciola

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ph Luca Del Pia

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Lunedì 13 febbraio alle 20.30 al Teatro Testori di Forlì andrà in scena lo spettacolo Le Rane, tratto dal testo di Aristofane, prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatri di Bari e Solares Fondazione delle Arti. Oltre agli attori, salirà sul palco un coro formato dai cittadini forlivesi che parteciperanno al laboratorio di due giorni condotto dal regista Marco Cacciola.

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Il tuo spettacolo recupera un testo classico, quello di Aristofane. Come e perché pensi che sia giusto rapportarsi ad un classico?

Io ho quest’idea della drammaturgia: spesso vediamo un testo classico come qualcosa coperto di cenere, come se si fosse spento, nei millenni. In realtà nel momento in cui è stato scritto era fuoco, era contemporaneo, bruciante.

Penso che se vogliamo stare dentro questo tempo presente, dobbiamo partire dai classici e portarli a noi. Io non credo nell’attualizzazione di un testo, nel senso di farlo parlare solo in termini più o meno moderni o trasformare la guerra del Peloponneso in quella di adesso, ma credo che sia necessario scrivere di oggi. Non credo, come non credeva Aristofane e i grandi autori, nel timore reverenziale del classico: quando si ha molto rispetto del testo è possibile farne una riscrittura.

Le Rane è stato scritto in un momento politico particolare (la guerra del Peloponneso, il declino della polis), in cui tutto ciò che accadeva chiamava fortemente Aristofane a una responsabilità e il poeta, che era un uomo politico nel senso aristotelico del termine, parlava del suo tempo e della sua città. Io mi sono chiesto perché volesse così fortemente urlare l’importanza della poesia, tanto da mandare i suoi protagonisti a recuperare i poeti morti nell’aldilà, perché “la città si possa salvare”.

Volevo rispondere a un doppio interrogativo: cosa significa poesia oggi e che cos’è poesia di una città. Per questo, a partire dalla traduzione originale fatta appositamente da due greciste, Maddalena Giovannelli e Martina Treu, c’è stata una riscrittura: tutta la prima parte è di Aristofane e poi, dalla parabasi, è completamente riscritto da me e dal dramaturg Lorenzo Ponte.

In che modalità e con quali obiettivi?

La seconda parte del testo originale di Aristofane è un agone tra Euripide ed Eschilo, che si domandano cosa funziona di più in una tragedia piuttosto che in un’altra. I riferimenti erano chiari all’epoca, per tutti i cittadini di Atene. Per noi non è così. Chi conosce l’incipit dell’Ifigenia in Tauride di Euripide? Chi sa quante volte Eschilo ha usato il termine “boccetta” nelle sue opere?

Io ho cercato il seme profondo, l’importanza della poesia e, soprattutto, il ruolo del coro. Nell’opera il coro rappresentato è composto da iniziati ai culti misterici, cittadini, nel nostro allestimento così come ai tempi di Aristofane.

Questo mi ha permesso di entrare in quella sorta di mistero che è per me il teatro nel senso più profondo, quindi interrogarsi sul senso del tragico. Per cui la prima parte dello spettacolo è comica e luminosa, ma, dalla parabasi, quando entra il coro, è onirica e interrogativa.

Squarcia il velo del dubbio per domandarsi: ci basta questo teatro fatto così com’è? Così nella seconda parte mi interrogo sulla poesia, su quel valore sociale che prova a ricucire questo patto tra la cittadinanza e quest’arte così necessaria eppure lontana dalle esigenze medie delle persone.

 

ph Luca Del Pia

 

Hai parlato di sacralità del coro, che è un coro di iniziati. Nel testo, il corifeo stesso invita ad entrare nel coro solo gli uomini onesti. È così anche nel tuo coro? In che senso intendi la sacralità e l’onestà? 

Questi sono due temi per me fondamentali.

Un altro mio spettacolo si chiama Farsi silenzio. È un cammino che ho fatto a piedi da Torino a Roma, una sorta di pellegrinaggio artistico chiedendo alle persone cosa è sacro oggi e che cosa è sacro nella loro vita quotidiana.
Per me il teatro è sacro, nel momento in cui presenta una possibilità di rinnovamento.

Sacro, nella parola stessa, indica qualcosa che è fuori da noi ma che rappresenta una possibilità di cambiamento. Con tutto il dolore che ne comporta, perché l’homo sacer nel codice romano era un reietto, fuori dalla società.
Per me teatro significa tutto ciò che inizia dopo lo spettacolo. Se si esce esattamente come si è entrati, qualcosa non ha funzionato. Se si esce anche solo con un interrogativo incastrato nei capelli, allora lì avviene qualcosa. È provocatorio nel senso vero, quindi provoca qualcosa.

E l’onestà è fondamentale. Il teatro non è sincero, perché è finzione, ma deve essere onesto. Io mi assumo la responsabilità di lavorare con dei non professionisti, fare con loro un percorso che non è attoriale, ma di esperienza, che permetta di comunicare a loro e far percepire qual è la mia idea di teatro iniziatico, qualcosa che attraversi gli strati più profondi della carne, che crei una crepa e che permetta a noi tutti di condividerla con gli altri.

Io coi cittadini lavoro su questi temi: il tema del dolore, della morte, della sofferenza. Spesso le persone arrivano pensando di lavorare sulla commedia però li faccio lavorare su questi temi e non se lo aspettano, ma grazie a questa impostazione portano la loro vita e la loro umanità sul palco.

Come dialogano e in che rapporto sono (anche numerico) i due gruppi, quello di attori professionisti e quello di non attori?

Gli attori professionisti, come nell’antica Grecia, sono tre, nei ruoli dei personaggi. Poi c’è il coro, composto dai cittadini e da due attori professionisti come corifei, per essere un trait d’union tra gli attori e i cittadini.
Io non metto limiti al numero dei non-attori partecipanti, ovviamente ci si adegua alle possibilità del teatro e il numero di volta in volta cambia. A volte sono dieci a volte sono venti. A Forlì, sono tanti (18).

Essi si inseriscono in una struttura già impostata dello spettacolo. Ma le strutture per me sono qualcosa a cui ti puoi appoggiare, rispettandola ma non temendola, non sono una gabbia. È più un modo per giocare. Ovviamente una parte di lavoro cambia sempre, a seconda delle persone, delle cose che diranno nel laboratorio, ma sempre all’interno di una struttura. Però la cosa bella è che il lavoro che facciamo nell’arco di due giorni e mezzo, per poi andare in scena al terzo, li fa sentire in tutto e per tutto coautori, perché andiamo a toccare corde che riguardano tutti noi.

 

ph Luca Del Pia

 

Dunque quando sopraggiunge il coro? 

Nella seconda parte, circa a metà, come nell’opera originale, a cui si arriva pian piano, andando a togliere, togliere, togliere, fino a dare importanza alle parole.
Certe volte non c’è possibilità di dire alcune parole senza rischiare un po’ di retorica, quindi nella seconda parte rimangono solo quelle estremamente necessarie e poi compiamo il rito vero e proprio. Solo dopo questo momento dionisiaco i cittadini possono dire le loro parole, quelle che scrivono durante il laboratorio. Il tentativo è quello di restituire qualche parola semplice, che appartiene alla città, senza dover trovare una poesia altrove, in un poeta solo. Abbiamo bisogno di polis, non di ego, come dicono i Greci.

È per questo che è importante coinvolgere i cittadini?

Sì, per questo e perché già allora il coro era fatto da cittadini. Ad Atene c’erano centinaia di persone che partecipavano a dei, semplifico, laboratori. Tra loro venivano scelti 12 o 24 coristi che partecipavano alle commedie e alle tragedie. Io ho semplicemente preso e tradotto questa pratica antica in senso politico. Lavorare con i cittadini per me è un modo per ricucire uno strappo e riconsegnare la responsabilità nelle mani della città. E chi meglio degli abitanti della città in cui arriviamo è rappresentativo di essa?

Ma è un po’ un viaggio nell’ignoto perché non sai mai chi ti troverai davanti.

Certo, ogni giorno è diverso. A Milano in questo momento il gruppo è molto folto, andiamo dai 25 anni ai 76, ci sono veramente tutte le fasce di età. A Parma è successo che ci fosse anche una ragazza di 12 anni, così i partecipanti andavano dai 12 ai 72 anni ed è stato meraviglioso. Anche qui a Forlì il coro sarà rappresentativo di tutti, giovani e meno giovani, uomini e donne.

 

ph Luca Del Pia

 

Tu, come regista, ti senti una parte di questo coro? Qual è il tuo ruolo?

Il mio obiettivo è quello di provare a dissolvere l’ego nella polis, cioè fare un passo indietro rispetto a questo mondo così individualista e riconsegnare la possibilità di una comunità. A volte mi succede che, lavorando in questo modo coi cittadini, mi ritrovi investito di un ruolo da guida quasi sciamanica, ma per me è sempre un esercizio a togliere. Io non mi esimo dal ruolo di guida perché comunque va fatto, questo non è il lavoro di un collettivo, però il teatro non può vivere di individualismi.

Sono curioso di vederlo.

Anch’io.

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Sono un artista, autore, atleta, attento a cogliere tutte le occasioni che la vita mi offre. Viaggio, scopro, racconto e intanto guardo e imparo. Nella mia formazione ci sono rami che sembrano lontani, geograficamente e concettualmente, ma che in me trovano un nodo: dalla laurea in Chimica a Torino, fino a Roma al diploma in Multimediale all’Officina Pasolini. Ho la passione del linguaggio scritto, che sia in musica, teatro o in un fumetto. Per questo scrivo e mi cimento in tutto e da scienziato cerco sempre il fatto.