Ritratto di Antonio Rezza

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Antonio Rezza - ph © Giulio Mazzi

Acrobatico cervello
esteso fino allo stiramento
della carnale propria ineffabile
estensività per toccare la cosa
opposta.

[Ottiero Ottieri, Il pensiero perverso]

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Non chiamatelo attore e nemmeno performer perché lui e Antonio Rezza e basta. L’eretico, il crudele, il trickster, il fustigatore!

Cosa fa Antonio?

Parla, cammina, salta, saltella, fischia, corre, impreca, geme, urla, ammonisce, istruisce, canta, balbetta, penetra.

A ogni scatto fulmineo del corpo eretico e erotico (“il corpo luciferino è l’opposizione radicale al servilismo del giullare”) crolla una categoria, va in rovina un sistema. Antonio è pura energia, puro ritmo – è l’uomo dalle suole di vento.

Fustiga, frastorna, farfuglia, frulla, fende, fonde, si fionda sui quattro punti cardinali.

Il suo corpo candidato alla gloria anche grazie a una ininterrotta autoimmolazione è di un erotismo apicale.

La nudità di Antonio è giocosa come quella di un bambino o di un dio incontenibile smanioso di cavalcare qualsiasi cosa gli capiti sotto tiro, anche l’ignaro spettatore all’occorrenza.

Illuminanti a proposito della dimensione vissuta dallo spettatore risuonano le parole di Flavia Mastrella, la cui poesia della forma e dello sguardo sono da sempre casa per Antonio: «Deve soffrire nello spazio bifronte. Nello spazio bifronte ed essenziale non c’è intimità per lo spettatore che, tra ritmi urbani e tribali, esce al trotto dei caprioli del tempo per approdare al vigore e alla saturazione della carne».

In tutto questo, l’eros sprigionato dal corpo e dalla personalità di Antonio è giocoso, esuberante, di una vitalità esplosiva e fecondatrice come quella di un fauno.

Antonio monta: il logos, lo spazio, i corpi degli altri. E lo fa tra fuochi d’artificio verbali che mandano l’interlocutore stordito in braccio alla vertigine: «Questo accostamento tra il corpo umanamente sofferente e l’assurdità delle parole ha un effetto comico di perversa ambiguità».

Il linguaggio, che può anche scivolare nel gramelot, è partorito dal cervello acrobatico di Antonio che si muove nell’habitat di Flavia, venendone continuamente stimolato e sollecitato: «Il linguaggio esercita un ruolo di primo piano, con l’asprezza, la mancanza di grazia, i cambi di tonalità: non è un italiano classico, ma un tentativo di trovare a livello sintattico delle alternative alla metrica tradizionale.

Un’espressione competitiva che redarguisce lo spettatore, inveendo contro le forme fossili della cultura usando il paradosso, il volume e i colori come strumenti essenziali per denunciare le carenze d’ingegno che affliggono l’individuo contemporaneo».

E Hybris è pieno di stilettate e aforismi fulminanti: Noi siamo gente povera – se ci togli anche la violenza, cosa ci resta? La vita è l’eutanasia dei poveri! Non lasciarmi solo come quando sto con te….

Il viso di Antonio: se ne potrebbe scrivere un volume a parte ma lui ne parla così: «Con l’andare del tempo il mio viso ha assunto un’espressione meno allucinata e più demoniaca, ha perso il ghigno che dava spazio all’utopia. Il volto ha il pregio dell’innaturalezza, è collegato direttamente all’agonia del corpo che si autoimmola allo spazio per concepire una fisionomia dello spasmo. Dissimulato con la respirazione, ma espresso dallo sguardo in panne. Che se corretto diventa satanico. Di una perfidia stanca, figlia di un corpo maggiore».

Acrobata della crudeltà, salta continuamente dal buffo al perverso e al diabolico grazie all’“esattezza paranoica della sequenza”. Le infinite e repentine modulazioni della voce che il suo apparato fonatorio riesce a riprodurre ricordano i virtuosismi di Artaud e Bene ma Antonio è unico anche in questo suo padroneggiamento di tutte le potenzialità del suono e dell’intonazione.

Lasciarsi cavalcare dalla verve demolitrice di Antonio richiede di assumersi il rischio di perdersi, di accollarsi il dovere di smarrirsi come antidoto all’imperante flaccidezza del pensabile.

Antonio Rezza e Flavia Mastrella, da irriducibili irrasegnati, ci sparano in faccia il malessere dei nostri tempi: l’individualismo strisciante associato alla furia nichilistica di un automatismo tecnologico che esalta e amplifica a dismisura il già fin troppo funesto automatismo della specie.

Ci sbattono in faccia il nostro tracotante mondo ibrido, il girone infernale nel quale siamo incastrati, senza possibilità di evasione.

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