Ferito a morte: dal romanzo allo spettacolo

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ph Lia Pasqualino

Lo Spettacolo andato in scena al Teatro Bonci di Cesena è l’adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Raffaele La Capria, lo scrittore che ci ha lasciati appena pochi mesi fa, lo scorso giugno, poco prima di raggiungere i cento anni di età.

Ferito a morte non è un romanzo qualsiasi. È la sua opera più famosa e celebrata. Quella a cui deve la sua notorietà di scrittore e con la quale, nel 1961, vinse il Premio Strega.

Nella nota all’edizione Mondadori scritta in occasione del cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione La Capria ha segnalato un interessante paradosso: “Ferito a morte, per come è costruito, per la complessità della tessitura narrativa, per la polifonia delle voci e la varietà dei punti di vista, per quella sincronia che va avanti e indietro nel tempo, mentre tutto è sempre presente, non è un libro facile e non sembra adatto a tutti i lettori”.

Eppure, nonostante questo, il libro ha sempre e continuamente trovato nuovi lettori, esercitando anche una notevole influenza nella cultura italiana del secondo novecento.

 

 

Pur non avendo mai avuto un vero adattamento cinematografico (anche se fu in buona parte ispirato al romanzo il film di Vittorio Caprioli Leoni al sole, del 1961, una sorte di Vitelloni di ambientazione napoletana), la sua atmosfera e le sue suggestioni si ritrovano in molto del cinema che amiamo.

Certamente a questo romanzo deve molto il cinema di Sorrentino.

In passato aveva progettato di farne un film. Pur senza realizzarlo, lo ritroviamo ben chiaro come una delle fonti di ispirazione sia in La grande bellezza, ambientato nei salotti romani invece che in quelli dei circoli nautici napoletani, che in È stata la mano di Dio, anche qui la storia di un ragazzo che lascia Napoli, per Roma, in cerca di un suo spazio nel mondo.

A firmare la regia dello spettacolo è Roberto Andò, un siciliano che invece a Napoli è finito per approdare, come direttore del Teatro Mercadante, che produce lo spettacolo assieme ad altre istituzioni, tra le quali ERT.

Andò ha raccontato che il progetto è nato da una conversazione che ebbe con La Capria, a cui era legato da un rapporto di amicizia, diversi anni fa. Gli disse: “Ma perché non lo vuoi fare a teatro, se ti è piaciuto così tanto, Ferito a morte? Ci hanno provato tante volte, e sempre a cazzo…”.

Autore dell’adattamento è invece lo scrittore romano Emanuele Trevi, non nuovo ad impegni di questo tipo, ricordiamo ad esempio la recente trasposizione teatrale di Ragazzi di vita di Pasolini, per la regia di Massimo Popolizio. Anch’egli legato da una lunga e profonda amicizia con lo scrittore napoletano.

Ferito a morte, oltre ad essere uno dei romanzi che meglio ha raccontato Napoli (quella che dal dopoguerra arriva ai primi anni Sessanta), rappresenta una sorte di resa dei conti con il proprio luogo di origine.

Di cosa parla, a dirlo in breve?

Ci racconta di Massimo De Luca, un intellettuale napoletano che lascia la sua città, come tanti altri hanno fatto come lui, e che il giorno della sua partenza rievoca nella sua mente i fatti e i personaggi della sua giovinezza, facendo un bilancio della sua vita.

Sullo sfondo la magnifica cornice naturale del golfo di Napoli e i tratti di costa di Capo Miseno, di fronte a Procida: “Una grande striscia rossa all’orizzonte, un rosso sfarzoso, e sopra nitido il profilo di lavagna viola delle isole, Ischia, Procida, Vivara. Anche Capo Miseno, nella distanza, è come un’isola sospesa sul mare. Il cielo, verde acquamarina sulle nostre teste, dietro Monte Solaro, dove annotta, è di cartavelina blu trasparente”.

Ci sono le giornate sulla spiaggia passate con gli amici, i tuffi al mare, le immersioni con la fiocina lungo i fondali, a caccia delle spigole. Ci sono i ritratti degli amici, personaggi che non è facile dimenticare: Glauco, Guidino Cacciapuoti, l’insuperabile Sasà. Le donne, turiste e non, a cui dare la caccia o cacciatrici loro stesse. L’amore impossibile di Massimo per Carla Boursier, tanto desiderata e mai fino in fondo avuta.

 

ph Lia Pasqualino

 

I discorsi con gli amici su cosa fare della propria vita, restare (nell’illusione di cambiare Napoli) o andarsene (nella disillusa consapevolezza che Napoli mai cambierà). “In fondo Gaetano aveva ragione. – Che cosa ancora ti trattiene? Avrebbe riso se gli avessi risposto: Ritrovare uno solo di quei giorni. Ma quali giorni? Sono Esistiti?”.

Napoli rappresentata come la Foresta Vergine, capace con la sua energia distruttiva di corrodere e corrompere ogni cosa. “Basta una distrazione, un rilassamento della volontà, e la Foresta entra vittoriosa nella casa, copre la strada, invade il campo coltivato, insomma mi hai capito? Voglio dire che domina incontrastata su tutto ciò che l’uomo tenta di costruire razionalmente, rende impossibile la Storia”.

Il Circolo nautico è il luogo di ritrovo della cerchia ampia di amici, ma anche un osservatorio attraverso il quale rappresentare l’odiata classe media: “E il circolo non era più soltanto un posto noioso che ti sottoponeva alla logorrea dei soci, al logorio del tempo, no. Il circolo diventava un osservatorio, e da quell’osservatorio tu potevi spingere lo sguardo sull’odiata classe media, causa ed origine di tutti i mali del Sud, perché a qualsiasi partito appartenga il cavaliereavvocatocommendatore resta, e rimesta sempre nel solito impasto d’imposture.

E dunque il Circolo lo potevi definire; una comunione di ozi, frivolo tirocinio di un grande ozio sociale cui cooperano fino alla morte tutti gli appartenenti alla cosiddetta classe dirigente. La loro alleanza: un viluppo di boria, di sconcezze, di borbonica ingerenza. La vera classe digerente meridionale”.

Non era certamente facile mettere in scena questa orchestrazione di voci nello spazio e nel tempo, che procede per frammenti e flash e che vede la continua sovrapposizione dei piani temporali, secondo una grammatica non lineare. Roberto Andò è riuscito felicemente nell’impresa. La pluralità del racconto e il continuo mutare delle prospettive riesce grazie alla suddivisione della scenografia in almeno tre dimensioni di spazio.

La stanza da letto di Massimo è fuori dal palco, quasi dentro la platea, con l’attore che interpreta Massimo da adulto (Andrea Renzi) sempre in scena e quasi immerso tra il pubblico. Il palco è diviso orizzontalmente in due.

Ad esempio, nella parte inferiore sono ambientate le scene a casa della famiglia De Luca, dove i tanti personaggi sono rappresentati nella loro quotidianità effimera, fatta di consuetudini, a partire dal pranzo della domenica.

 

ph Lia Pasqualino

 

La parte superiore è delimitata da una balaustra, e vi sono ambientate le scene che si svolgono nel Circolo, oppure le giornate passate al mare. Queste scene si rispecchiano sul fondo, su cui sono proiettare le immagini di una spiaggia, a creare la suggestiva illusione di una ambientazione marina. In altri casi, per le scene che si svolgono sott’acqua, sul fondo del palco sono proiettate le immagini di fondali marini, nelle quali per incanto compare la spigola, che talvolta riesce a sfuggire alla fiocina di Massimo, una metafora delle tante occasioni mancate.

Il Massimo adulto è quasi sempre fuori scena a ricordarci che tutto quel che vediamo sul palco sono i ricordi che lo assalgono nel momento della resa dei conti della propria vita, della decisione di partire e lasciarsi alle spalle quella che oggi definiremmo la “comfort zone” delle proprie abitudini, della propria esistenza.

Molto riuscita è anche la scelta di regia su come rappresentare la lunghissima scena del pranzo domenicale a casa De Luca.

È al tempo stesso il pranzo di una ben precisa domenica, quella in cui Gaetano si propone si rivelare a Massimo, il suo migliore amico, la sua sofferta decisione di lasciare Napoli, per andare a tentare la carriera di giornalista a Milano, senza tuttavia riuscirvi. (Alla fine, sarà il fratello Ninì a dirglielo, raccontando con la sua irridente ironia la vita che attende Gaetano: “Eh, a Milàn l’è un’altra roba, sveglia alle sette, doccia, e giù in fabbrica a lavorar come matti!”).

Ma è anche il pranzo che tutte le domeniche si ripete sempre uguale, con gli stessi chiassosi discorsi.

Sappiamo come sia difficile rendere a teatro una scena di questo tipo.

Ecco allora che al posto di una unica lunga tavola, troviamo tanti tavolini, in ognuno dei quali sta un singolo commensale. I quali, ad ogni scambio di battute, ruotano tra di loro, cambiando posizione sul palco.

E così lo spettacolo riesce a far vivere i ricordi di Massimo, che si susseguono e si accavallano come i tanti personaggi che compaiono sulla scena (ci sono ben sedici attori), in una coralità di scene, immagini, suoni (a volte anche i suoni ovattati e leggermente distorti dell’orecchio di Massimo, che ha il timpano danneggiato dopo una lunga immersione in profondità), musiche e parole, riuscendo ad avocare lo stile sconnesso del romanzo.

Quello che resta, ben forte, è la descrizione del senso di vuoto che ci assale al momento della separazione da quello che pensiamo essere tutta la nostra vita e che ad un certo momento scopriamo non appartenerci più. Un sentimento ben forte nei tanti napoletani che hanno lasciato la loro città, e che hanno dovuto adattarsi ad un mondo che all’inizio è visto come estraneo ed alienante, ma può essere al tempo stesso occasione di rinascita e crescita.

Da questo punto di vista sono particolarmente significativi i momenti, verso la fine dello spettacolo (e del romanzo), nei quali Massimo, nei suoi ritorni a Napoli, incontra (a Capri e a Positano) chi invece è rimasto: in particolare, il fratello Ninì (da segnalare la notevole prova di Giovanni Ludeno) e l’amico Sasà.

Se da giovani erano i personaggi più in vista e di maggiore successo, per la loro esuberanza, nella variegata cerchia di amici, sempre alla ricerca di avventure di ogni tipo, a partire da quelle galanti, ora sembrano tristi caricature di ciò che erano stati, ridotti a vivere di espedienti, nel patetico tentativo di rimanere sé stessi in un mondo irrimediabilmente mutato.

Lo spettacolo, dopo la prima al Teatro Mercadante di Napoli, sta completando la sua tournée nei principali teatri italiani. Non sappiamo se avrà una ripresa la prossima stagione. Si può comunque rimediare leggendo, per chi non l’ha ancora fatto, il bellissimo romanzo di Raffaele La Capria.

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Visto al Teatro Bonci di Cesena il 29 gennaio 2023

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Dario Zanuso: Ama, al pari di un’iguana, crogiolarsi per ore al sole, ma come una talpa, si trova a suo agio anche nel buio di una sala cinematografica. Il suo sogno nel cassetto è di proporre alla Direttrice una rubrica di recensioni letterarie dal titolo “I fannulloni della valle fertile” o “La valle fertile dei fannulloni”, è indeciso; da sveglio si guarda bene dal farlo: è pigro quanto un koala australiano. Aldo Zoppo: Collaboratore di Gagarin Magazine dal 2010, ha ideato con il fido Dario la rubrica Telegrammi di Celluloide. Nasce a Napoli nei mesi delle rivolte studentesche del ‘68, si trasferisce a Ravenna a metà degli anni ’90 e diventa cittadino del mondo, pur rimanendo partenopeo nell’anima. Lo si trova abitualmente nei vari festival cinematografici del bel paese, apprezza molto le produzioni dei “Three amigos” del nuovo cinema messicano e la cinematografia italiana, dal Neorealismo alla commedia all’italiana. Attore teatrale per hobby, ha interpretato tanti personaggi della commedia napoletana, da Scarpetta ai fratelli De Filippo.