Il fuoco e la forma: sulle creazioni di Emma Dante, Josef Nadj, Marco Lorenzi e Thomas Vinterberg. Pensando a Sanremo

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Blanco a Sanremo 2023

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Nelle scorse settimane due teatri gestiti da ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, il Bonci a Cesena e l’Arena del Sole a Bologna, hanno proposto -tra gli altri- tre spettacoli diversissimi tra loro per temi e stilemi ma forse accomunabili per la simile messa in evidenza del rapporto scenico tra incandescenza e linguaggio: Pupo di zucchero. La festa dei morti di Emma Dante, Omma di Josef Nadj e Festen. Il gioco della verità di Marco Lorenzi / Thomas Vinterberg.

Al di là dei giudizi di merito sulle singole creazioni (si tratta di autori che non han certo bisogno dell’eventuale validazione di queste poche righe) ciò che in primis desideriamo sottolineare è la funzione brechtianamente didattica (leggi: critica, distanziante, consapevolizzante) che il programmare tali titoli assolve, da parte di un soggetto preposto a farlo.

Tutte e tre queste opere trattano una materia oltremodo infuocata, passionale, carnale e lo fanno ponendo in evidenza il trattamento linguistico che ogni creazione artistica, per esser definita tale, ontologicamente richiede.

Il rapporto tra le arti e le emozioni, si sa, è da sempre oggetto di riflessione: spostandosi in territorio musicale, è noto, già Platone nella Repubblica fornisce una prima formulazione filosofica di tale costitutiva relazione.

A proposito di musica, e balzando all’oggi: del Festival della canzone italiana appena terminato a Sanremo, forse l’episodio mediaticamente più dilagante è stato meramente extra artistico, con il giovane cantante Blanco che si infuria per un problema tecnico e distrugge, durante la propria esibizione, la scenografia che lo circonda.

Lungi da noi atteggiarci a opinionisti di quart’ordine, men che meno su fenomeni pop, ma una cosa è ancora una volta del tutto evidente (se mai ci fosse stato bisogno di un pro memoria): agganciare le persone per via sentimentale, passionale, “per la pancia” si sarebbe detto in passato, è oltremodo facile.

Tutti sappiamo come, anche solo nell’ultimo secolo, molti regimi totalitari hanno agito in tale direzione, per costruire consenso.

Ecco allora che incontrare proposizioni che, a volerlo vedere e fare, aiutano a porsi in una postura “al di sopra della corrente”, da “osservatore che fuma” (per usare due espressioni care a Bertolt Brecht) è attitudine sana e oltremodo necessaria: per contribuire a creare, se mai ciò fosse possibile, cittadine e cittadini più consapevoli della propria relazione con i sistemi di segni da cui si è senza posa attraversati.

 

Pupo di zucchero – ph Ivan Nocera

 

Nella creazione di Emma Dante il tema smisurato della morte (è peraltro di queste ore la notizia della scomparsa del padre della regista palermitana, approfittiamo di queste righe per porgere le nostre condoglianze) viene trattato mediante almeno tre piani: uno referenziale (lo spettacolo racconta i riti popolari legati alla Commemorazione dei defunti), uno compositivo (di creazione in creazione vira sempre più verso la coreografia, dunque la scrittura di corpi nello spazio scenico, la modalità registica della Dante), uno simbolico (le dieci sculture con misure e fattezze umane a raddoppiare i dieci interpreti in scena).

Tra polifonie popolari ed esplicite citazioni coreutiche (dalle cadute laterali che terminano in inarcamenti à la Bausch fino al flamenco, et ultra), nell’alternanza di sospensioni ed esplosioni cinetiche, di francese, spagnolo e dialetti del Sud Italia, di sincroni e inseguimenti nel grande spazio scenico vuoto, di urla e risate, è affatto evidente la netta geometria in cui il disegno registico rapprende e al contempo rilancia le molte forze in campo.

 

Omma – ph Severine Charrier

 

La stessa cosa si potrebbe dire per Omma, che uno dei grandi nomi della coreografia internazionale crea attraverso i corpi-teatro (per dirla con Nancy) di otto danzatori provenienti da diversi Paesi africani.

Sorta di energici ed energetici objets trouvés nelle mani del noto coreografo, la delocazione a cui lo spettacolo dà luogo produce, come nelle celebri opere di Claudio Parmiggiani, un segno -dunque, un elemento linguistico- che è il vero oggetto dell’opera.

Dagli abiti di scena (giacche e pantaloni scuri) fino alle nette geometrie che costringono il sovrabbondare ritmico e cinetico degli interpreti, dalle espirazioni sonorizzate ai frammenti vocalici, tutto concorre, in Omma, a creare un habitat di segni, offerti ai guardanti come fatti (Deleuze docet).

A proposito di guardanti e di sguardi, una questione che certo richiederebbe ben altre riflessioni: quanto dell’interesse per questa creazione è dato, per noi spettatori occidentali, dall’attitudine culturalmente colonialista che, in noi, così fatica a divenire post?

 

Festen – ph Giuseppe Di Stefano

 

Nel caso dell’adattamento teatrale di Marco Lorenzi del celebre Festen di Thomas Vinterberg vi è in primis, a rendere linguistica la ridda di pulsioni che muovono la vicenda, l’espediente delle video-riprese in diretta proiettate sull’enorme velatino che separa palco e platea, a moltiplicare i medium e i punti di visione.

Brechtianamente si vive, da spettatori, il continuo altalenarsi tra immergersi nella vicenda (con la relativa sospensione dell’incredulità che ogni patto teatrale richiede) e l’esser consapevoli che si è di fronte a una finzione.

Rispetto al film del ’98, l’opera teatrale presenta alcune variazioni dal punto di vista della fabula: l’aggiunta del riferimento ad Hansel e Gretel come esempio di famiglia disfunzionale, in apertura e, parallelamente, l’elisione di diversi ambienti e passaggi narrativi.

Ancora: il dispositivo scenico intreccia e sovrappone diversi piani (visuale, sonoro, recitativo, registico, drammaturgico), mostra i propri trucchi (meglio: la propria struttura finzionale) e al contempo è pienamente credibile. Una capriola non da poco, bisogna volerla e saperla fare.

In Festen la forma che blocca e moltiplica le pulsioni oggetto della storia è anche data dalle regole sociali, le stesse, forse, che fanno terminare in maniera normalizzante sia la pellicola che lo spettacolo: l’inquietante domanda su quale sia la verità, nella drammatica vicenda raccontata, sul finale si risolve con l’ammissione di colpevolezza del padre-mostro, la sua espulsione dal mondo-scena e tanto di applauso liberatorio alla moglie che decide di abbandonarlo al proprio destino.

In fondo, al di là di ogni romanticismo (e a proposito di consapevolezza): è show business, bellezza.

E noi sgomberiamo la platea senza farci altre domande.

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