Tra cultura e scultura: due giorni a Teatro Akropolis

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Teatro Akropolis, Apocatastasi - ph Clemente Tafuri

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Sono scomode al punto giusto, le sedie del rinnovato Teatro Akropolis di Genova.

Come l’omonimo ensemble, diretto con stupore e rigore da David Beronio e Clemente Tafuri, che di quel luogo è anima e motore.

Lì siamo tornati per due giorni, lo scorso fine settimana, a incontrare un progetto proteiforme.

Per darne conto, vale forse partire dalla citata omonimia.

Meglio: dalla “necessità di fondare il posto da cui [si] parla”.

A dirlo è il gesuita, antropologo, linguista e storico francese Michel De Certeau in Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo.

Lì prosegue:Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati (o autorità) sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione”.

 

Teatro Akropolis

 

Tale coincidenza, nel caso genovese, pare inverarsi per sottrazioni e moltiplicazioni, in un gesto curatoriale e creativo (meglio: creaturale) che non rifugge la complessità e, come accennato in apertura, finanche una certa sana scomodità.

Niente di più lontano dall’idea di arte come decorazione, ciò che si pratica lì.

Scandaglio, piuttosto, del senso e delle possibilità dell’espressione là dove essa si fa linguaggio.

Interrogazione inesausta alla tensione estetica (dunque, letteralmente, conoscitiva) di chi l’arte la fa e di chi la fruisce.

Ciò si invera nelle decine di laboratori di teatro fisico che l’ensemble guida sul territorio, coinvolgendo solo nell’ultimo periodo ben 1.500 persone dai 6 ai 18 anni.

Si realizza nel fitto programma di residenze artistiche, a farsi casa di percorsi creativi di realtà liminali e visionarie.

Nella multidisciplinarietà che attraversa ciò che in quel luogo è dato a incontrare e, parallelamente, i gesti creativi dell’ensemble.

Una caratteristica, la multidisciplinarietà, spesso usata come scorciatoia per rende più vario, dunque appetibile a pubblici diversi e più ampi (giacché, ahinoi, a noi spettatori quasi sempre piace mangiare lo stesso cibo, che sia teatro o danza o musica o cinema o filosofia) ciò che si propone, che qui diviene -al contrario- occasione di ulteriore scavo con utensili diversi.

A proposito di utensili: l’attitudine curatoriale di Teatro Akropolis pare orientata sempre più, in senso michelangiolescamente scultoreo, a liberare la forma eliminando le eccedenze e così accerchiando con strumenti ed angolazioni differenti (una performance, un libro, un docufilm su un filosofo, una residenza artistica, un laboratorio in una scuola primaria) il mistero dell’espressione e del suo dirsi.

Sideralmente distante da pur meritorie modalità di teatro con contenuti esplicitamente sociali e civili, la pratica d’arte che si invera a Teatro Akropolis ha più a che fare col Mito che con la cronaca: si costituisce dunque originariamente, finanche ontologicamente un rapporto dialettico, critico col reale.

In sottrazione, appunto.

Anche: in trasduzione.

Vien da pensare a Jean Baudrillard, al suo saggio La sparizione dell’arte, per perfetta sintonia con ciò che questo ensemble fa accadere: “L’arte non ha senso critico e non offre una soluzione dialettica, è la soluzione attraverso il suo stesso gesto. Sfida il mondo eccedendolo, lo risolve superandolo, inglobandolo, esorcizzandolo, deterrendone il simbolico”.

 

Bernardo Casertano, Charta – ph Luca Donatiello

 

Le due giornate da noi trascorse a Teatro Akropolis si sono aperte con Charta di e con Bernardo Casertano, proteiforme creazione che indaga e ribalta, assumendo a guide speleologiche Carmelo Bene che rilegge Pinocchio e il Pasolini di Affabulazione, il rapporto padre-figlio.

È una creazione in bianco e nero che suggerisce ed evoca, ora giustapponendo ora sovrapponendo una serie di quadri staccati, una possibilmente infinita molteplicità: di prospettive, di dialetti, di materiali usati, di consistenze sceniche e performative.

In equilibrio tra istrionismo e incanto infantile, Casertano abita uno spazio multi-prospettico in cui le invenzioni e i riferimenti di senso sono senza posa e con forza ricondotti all’alveo teatrale: è come entrare in una bottega artigiana, assistere a questo spettacolo processuale in cui ogni segno è osteso.

Una creazione pensosa e al contempo ariosa, come il respiro che fa impercettibilmente vibrare le sagomine di carta leggera appese a un filo, a fondo scena.

 

Teatro Akropolis, Apocatastasi – ph Clemente Tafuri

 

Al ritmo del respiro vibrano anche, in controluce, i capelli delle interpreti di Apocatastasi, nuovo scandaglio di Teatro Akropolis del possibile rapporto misterico e paradossale tra nascondimento (dei volti coperti dai lunghi capelli, dei corpi in controluce o di spalle al pubblico, dell’ensemble di fiati che esegue live la partitura sonora, ma dal camerino) e manifestazione, passando “dal lato incantato della forma e delle apparenze” (Baudrillard, ancora).

A partire dal titolo, cosa ristabilisce, cosa restaura questa performance?

In primis, vien da sintetizzare, la possibile densità di ciò che compone l’accadere scenico: i corpi fisici, quelli sonori, quelli di pensiero e soprattutto le relazioni dinamiche tra essi, intrise di variazioni e sussulti, distensioni e increspamenti, spasimi e allungamenti, approssimazioni e lontananze.

 

La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro. Carlo Sini

 

Tra le due performance, nel pomeriggio del secondo giorno, sono stati presentati tre dei quattro docufilm di Teatro Akropolis ad oggi esistenti, dedicati rispettivamente alla coreografa e danzatrice Paola Bianchi, al filosofo Carlo Sini e al light designer Gianni Staropoli, tutti parte del progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro.

Affatto diversi per oggetto e spessore delle persone a cui le opere sono state dedicate, in questa sede pare opportuno sottolineare unicamente il segno che Tafuri e Beronio, insieme a Luca Donatiello e Alessandro Romi, hanno impresso a questi fecondi e stratificati  discorsi (termine da intendersi foucaultianamente come “luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere”): asciuttezza formale, scandaglio analitico, tensione interrogante, procedere rizomatico per associazioni e suggestioni piuttosto che per narrazioni lineari.

Secondo un’idea di cultura, si potrebbe forse in conclusione sintetizzare con il gigantesco Carlo Sini, come “messa in gioco di quelle voci lontane che sono la mia voce”.

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