Visto da noi: Mantiq At-Tayr – Il Verbo Degli Uccelli, mosaico di culture

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Grande Teatro di Lido Adriano, Mantiq At-Tayr - Il Verbo degli Uccelli - ph Nicola Baldazzi

 

In provincia di Ravenna, località Lido Adriano, a pochi passi dalla spiaggia c’è il Cisim.

Cisim sta per Centro Internazionale Studi e Insegnamenti Mosaico, un vecchio nome per una funzione che l’edificio non ricopre più. Eppure al suo interno c’è un mosaico di culture, lingue, umanità, impegnate in attività diverse, come il teatro, la musica rap, la sartoria o lì anche solo per bere una birra.

Proprio al Cisim, qualche giorno fa, si è aperto il Ravenna Festival, con lo spettacolo Mantiq At-Tayr – Il Verbo Degli Uccelli, del Grande Teatro di Lido Adriano. Uno spettacolo-mosaico nel quale trovano compimento i laboratori artistici del Cisim, ma aperto anche a chiunque ha avuto il desiderio di partecipare.

Il verbo degli uccelli, o in persiano Mantiq At-Tayr, è un poema sufi scritto da Farid Ad Din Attar, nel XII sec.
Nella storia gli uccelli, alla ricerca di un re, si mettono in viaggio, guidati dall’Upupa e attraversano sette valli, per trovare il Simorgh, uccello leggendario. Trenta di loro riescono a raggiungerlo, ma una volta davanti al Simorgh scoprono che si tratta di uno specchio in cui vedono riflessi sé stessi (si murgh in persiano significa anche “trenta uccelli”).
Il testo è dunque un manifesto di introspezione, un viaggio spirituale alla ricerca del divino che si cela in noi e nell’unione di tutte le cose.

Il poema è stato adattato dallo scrittore Tahar Lamri, che è anche la guida dello spettatore nel corso della messa in scena. Lo spettacolo è infatti, leggermente itinerante, e la presenza silenziosa di Tahar indica di volta in volta dove si svolgerà la prossima tappa.

 

Grande Teatro di Lido Adriano, Mantiq At-Tayr – Il Verbo degli Uccelli – ph Nicola Baldazzi

 

Si comincia dalla spiaggia, verso l’ora del tramonto. Niente uccelli, né luci o scenografie. Non ancora. Qui c’è solo un direttore d’orchestra che, coi piedi a mollo tra le onde, cerca di dirigere il mare.

Dico “cerca” perchè, chiaramente, è impossibile dirigere il mare. Lui fa un po’ quello che gli pare, con le onde che vanno avanti e indietro ad un tempo tutto suo.
E io non riuscivo a capire cosa c’entrasse questo primo spettacolo con quello che è venuto dopo, ma poi, stando attento, ho capito.

Quello che è venuto dopo, frase con cui alludo alla gran parte della serata, era organizzato in due luoghi e in due modi man mano più strutturati.
Dopo la spiaggia ci siamo spostati al Cisim, nel cortile, dopo un doveroso rito di unzione a base di antizanzare, come se ci dovessimo preparare a una qualche cerimonia sacra.

Qui gli attori, tanti, di tutte le età, organizzati in due cerchi, hanno cantato una canzone in bilico tra il rap e la salmodia. Guidati, al centro, da Lanfranco Moder Vicari, artista rap e curatore del lavoro sulle canzoni. Un lavoro partito da Tahar, che ha scelto alcune poesie sufi, e proseguito con Lanfranco che le ha adattate, in alcuni casi includendo i contributi dei partecipanti.
Mentre loro cantavano, sulla parete esterna del Cisim si è illuminato un disegno: una garzetta, realizzata dal famoso artista Eron, che ha dato anche lui un contributo al Grande Teatro.

Poi la voce di Jessica Doccioli ci ha spinti a partire, a compiere con solennità quei pochi metri e a circumnavigare il Cisim, fino a giungere sul retro, dove era allestita una scenografia. A terra tappeti dai disegni orientali, sulle pareti sagome di montagne nere, in cui erano incisi disegni stilizzati di uccelli di tutti i tipi, un’opera del disegnatore Nicola Montalbini. Sui tappeti gli attori, intenti a disegnarsi sul viso il nome dei vari uccelli. Dietro di loro i musicisti, intenti a suonare. A margine la cantante e un narratore, il direttore di prima. Su un cuscino, a terra, al centro di tutto, riposava un microfono.

E qui è iniziato davvero lo spettacolo. Gli uccelli hanno iniziato a parlare, a discutere tra loro, a scambiarsi e rubarsi il microfono per poter dire ognuno la propria, secondo il proprio carattere, colore, forma, permettendomi di comprendere la scelta del testo, perfetto per quel gruppo di persone di ogni carattere, colore, forma.

C’è da dire che io li avevo visti anche in prova, ancora più personali nei propri abiti, fuori dal costume di scena, ancora più sé stessi.

Questi molti uccelli hanno raccontato, in più lingue, il viaggio, con le sue difficoltà e paure, alla ricerca del Simorgh. Le canzoni rap, la musica, la voce della cantante, quella del narratore che raccontava ogni tanto una storia edificante, tra un sorso e l’altro da un boccale di birra, erano solo altre lingue, che si aggiungevano al coro. Anche i disegni sui muri erano altre lingue. Anche quella del mare. Era come se tutto fosse parte di una cosa sola, di uno stesso racconto. E non dico poco, perché c’era davvero tanto in scena.

Eppure, nessuna voce ha rinunciato alla sua individualità. È stato proprio il mare a farmi notare questa cosa. Come le sue onde che andavano come cavolo gli pareva, anche nella rappresentazione c’erano tanti piccoli gesti di simile libertà.

 

Grande Teatro di Lido Adriano, Mantiq At-Tayr – Il Verbo degli Uccelli – ph Nicola Baldazzi

 

Alcuni di questi erano previsti da copione.

Ad esempio la scelta di parlare in lingue che molti non possono capire (l’arabo, il turco, il dialetto, ma magari anche l’italiano) o il mangiucchiar di semi degli attori durante lo spettacolo.

Ma molti non lo erano affatto.

Ad esempio il bambino che urlava le sue battute con tutta la voce che aveva nel corpo.

Ad esempio la bambina che, finito lo spettacolo, occupava da sola l’intero spazio scenico per danzare davanti al pubblico ancora seduto.

Ad esempio il fatto che, ogni sera a detta di Nicola Montalbini, l’autore della scenografia murale, gli uccelli disegnati sul muro aumentavano… senza che fosse lui a disegnarne di nuovi.

Ma anche nel pubblico ho visto ancora altri gesti, ad affermare una presenza libera. Come quella dell’uomo che commenta alla donna seduta di fianco, forse la moglie, “Hai sentito? Ha detto che l’amore ama le cose difficili.”

O come quello di un ragazzo straniero che fa un video con il cellulare subito dopo la richiesta di non fare video col cellulare.

Anche le zanzare, nella loro libertà, ci hanno mangiato, nonostante l’antizanzare, e qualcuno, nella sua controlibertà, le ha fatte fuori con una rumorosa racchetta elettrica.

Tanti piccoli gesti che però non rompono l’unità del tutto.

Probabilmente perchè il tutto, come lo ha pensato il regista Luigi Dadina, comprende proprio anche questa libertà vitale, fisiologica, fondamentale.

Allora si capisce anche il nome della compagnia, perché un teatro in grado di accogliere questa straripante libertà non può che essere Grande. Il Grande Teatro di Lido Adriano.

Un nido, un mosaico, un simbolo di rivendicazione e, soprattutto, come il Simorgh, uno specchio, l’unica forma dentro alla quale tutto trova uno spazio e un senso.

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