Consigli di esperienza: Le amarezze di (e a) Teatri di Vita

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Proseguo l’esperimento di una (per me) nuova modalità di restituzione.

Lo faccio recuperando la funzione che la critica aveva quando nacque, nel Settecento: farsi ponte tra le creazioni e il pubblico.

E, per chi scrive, assumere in sé l’onere del consiglio.

Nessuna analisi specifica, come sono invece solito fare nelle mie scritture: piuttosto mettermi al servizio di qualcuno o qualcosa, a partire da un chiaro apprezzamento e da un esplicito posizionamento (cosa che cerco di non mettere mai in evidenza, nelle mie pubblicazioni più analitiche).

Qui scrivo con arbitraria soggettività, apodittica sintesi, smaccata partigianeria.

Buona lettura, se vi va.

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CAPOLAVORO

Lo dico subito: qui per me siamo dalle parti del capolavoro.

Capolavoro: termine scivolosamente vago, consumatissimo.

Soprattutto nel mondo delle arti della scena.

Come straordinario e necessità. Come augurissimi e tanta roba: parole vuote.

Qui, capolavoro, lo uso in senso etimologico, perché Le amarezze di e a Teatri di Vita a Bologna (in scena ancora da mercoledì 17 a domenica 21 gennaio 2024) pertiene -prima, durante e dopo ciò che accade in scena- al fare, all’azione: all’«esplicazione di energia volta a un fine determinato», come dice il vocabolario Treccani a proposito di lavoro.

Capolavoro, poi, lo intendo in senso comune: c’è maestria, qui.

E c’è straziante bellezza, per dirla con Pier Paolo Pasolini, autore molto caro anche a una delle anime fondative di Teatri di Vita, lo studioso Stefano Casi.

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PRIMA

Prima di questo spettacolo, era il 1913, il russo Maksim Gor’kij scrive Infanzia, primo capitolo di una dolente trilogia autobiografica.

Prima di questo spettacolo, era il 1970, debutta in una chiesa di Strasburgo la creazione che Bernard-Marie Koltès ha trasdotto dal racconto di Gor’kij.

Le amarezze, il titolo.

In questa riscrittura, il muto protagonista è Aleksej Maksimovič Peškov.

Che è poi il vero nome di Maksim Gor’kij.

E questo pseudonimo letterario, Gor’kij, significa “l’amaro”.

Prima di questo spettacolo ci sono i molti attraversamenti scenici che negli anni Andrea Adriatico ha compiuto, delle inquietudini di Bernard-Marie Koltès.

Questo, per dire che prima c’è tanto: un mare che certo non voglio né posso esaurire. Ma che va suggerito: non come enigma, né come rassicurazione d’esperienza. Come fondo mare in cui tuffarsi, piuttosto.

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DURANTE

Forme della sopraffazione. O anche Esercizi di sopraffazione.

Così si sarebbe potuto intitolare, questo mio articoletto.

Su uno spettacolo, questo, che andrebbe mostrato in ogni scuola di teatro, azzardo, per la sua attitudine strutturalista, brechtianamente didattica.

Lo spazio scenico è perimetrato da una rete metallica.

Dentro, un manipolo di persone di diverse età, prima nude e poi vestite con tute di stoffa pesante dall’aspetto militaresco, si soverchiano reciprocamente in molti modi, con linguistica ferocia.

Come non pensare, immediatamente, a due celebri allestimenti del testo La prigione di Kenneth H. Brown, ex marine diventato anarchico (The Brig del Living Theatre del ’63 e La prigione della Compagnia della Fortezza nel ’94)?

A noi, seduti attorno, il compito grotowskiano di testimoni muti di un artaudianamente crudele inventario di soprusi.

Alcune figure (chiamate in causa e al fare mediante il proprio vero nome, anche così elidendo la distanza tra attorialità e performatività) sono seccamente etero-dirette da voci che, al di fuori del recinto, impongono loro una serie di azioni veementi, finanche aggressive.

Microfoni usati come strumenti di potere.

Reiterazioni e variazioni (una ridda da vertigine della lista, direbbe Umberto Eco) divengono qui linguaggio, struttura in evidenza che mostra l’accadimento nel suo farsi, che ostende i propri meccanismi: scene ripetute in direzioni diverse e/o a ruoli invertiti, enumerazione progressiva dei sedici quadri che compongono quest’opera, presentazione della struttura di una composizione musicale annunciata (una Sarabanda di J.S. Bach), indicazione di diversi modi di ballare, anche ripetendo la medesima partiture fisiche e vocali con luci e suoni diversi e così creando atmosfere affatto difformi, recitazione delle didascalie del testo.

Le persone in scena si offrono all’esercizio con materica esattezza: un altro grande russo, Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, avrebbe certo apprezzato.

Sintesi incarnata di queste contrapposizioni, è il corpo-teatro di Olga Durano, presenza misteriosa, in grazia di officiante, che meriterà ben altro spazio di attenzione ma che ora desidero almeno nominare. E ringraziare.

La regia di Andrea Adriatico qui articola un montaggio, o meglio una composizione, di materiali di e da laboratorio, termine non da intendere nell’accezione banalmente sminuente in uso nei mondi delle arti della scena, piuttosto in quella analitica, finanche strutturalista, che affida al linguaggio e alla sintassi teatrali che incarna il proprio esatto consistere (e questo, in un panorama zeppo di creazioni che usano l’ibridazione dei linguaggi come scappatoia per la propria gracilità, non è cosa da poco) e che consegna alle persone riceventi ciò che accade con l’implacabilità di un fatto.

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DOPO

Dopo quasi due ore di ammaliante immersione in questa esperienza estetica (dunque, etimologicamente, conoscitiva), d’improvviso si è costretti bruscamente ad uscire dalla grande sala: ci si ritrova nel freddo del Parco dei Pini attraversati da salutari domande sul linguaggio di cui siamo costituitə.

A distanza di qualche giorno da quell’incontro, ora che finalmente riesco a scrivere queste brevi note, risuona sottile ma distinto l’eco di aver sfiorato qualche cosa che non conosco ma che a tratti, come nella poesia, si rivela.

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Info QUI. Poi non dite che non lo sapevate.

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