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Ecco un buon consiglio.
Un’esperienza nutriente, straniante, straziante, interrogante (a ben vedere le quattro funzioni dell’arte quando è tale, forse) la potete fare ancora giovedì 11 luglio.
A Parma.
Al Palazzo del Governatore, nella centralissima Piazza Garibaldi.
Alle 17.
Per l’ultima volta saranno presentate in sequenza quattro Azioni Sentimentali che Lenz Fondazione ha creato su, con, da e contro Gina Pane.
Io, questa avventura, l’ho vissuta giovedì scorso.
Dico io: cosa che, in una recensione, non si dovrebbe mai fare.
Per due motivi.
Il primo, di carattere personale: con Lenz ho lavorato per otto densi anni, le avventure di segno e di senso di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto per molto tempo sono state casa.
Il secondo, di ordine estetico (dunque, etimologicamente, connesso all’esperienza e alla conoscenza): ci si sente chiamati dentro, molto dentro. Chiamati per nome.
Il consiglio è prendersi un tempo (almeno un’ora e mezza?) per visitare la mostra Contemporanea. Capolavori dalle collezioni di Parma, allestita al primo e al secondo piano del Palazzo del Governatore fino al 21 luglio.
Esperienza del tutto commovente, quasi da sindrome di Stendhal, incontrare tali e tanti capolavori, che per un po’ di tempo hanno abbandonato case private del territorio per offrirsi agli occhi di chi lo desidera.
Un gesto che muove domande: cosa significa possedere un’opera che è parte dell’immaginario collettivo? Al di là delle questioni economiche, intendo: come cambia, se cambia, lo statuto ontologico di una creazione che ha forgiato (e spesso irritato) generazioni – come la celeberrima Fontana di Marcel Duchamp, esposta in una teca al centro della prima sala?
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Duchamp, s’è detto.
In compagnia di altri 92 nomi.
Eccone alcuni, nell’ordine del mio imbattermi: Severini, Dix, Ray, De Chirico, Hopper, Picasso, Chagall, Morandi, De Pisis, Casorati, Sironi, Marini, Mušič, Hartung, Vedova, Burri, Scialoja, Moreni, Gilardi, Fontana, Vasarely, Ligabue, Bonalumi, Castellani, Melotti, Dorazio, LeWitt, De Dominicis, Kosuth, Caravaggio, Boetti, Isgrò, Paladino, Baselitz, Schifano, Acconci, Salvo, Parmiggiani, Zorio, Kounellis e Pistoletto.
Da sindrome di Stendhal, appunto.
93 artisti: e mai maschile sovraesteso fu più appropriato, ahinoi.
Di 93, solo due donne, se non sbaglio.
Sull’orrido maschilismo che ha impestato (e continua a impestare) il sistema delle arti -anche quelle più strambe– tanto ci sarebbe da dire, e soprattutto da fare.
Due donne, si diceva.
Grazia Varisco, con una sua opera cinetica in bianco e nero, francamente minore, e Gina Pane, presente con un polittico, in una stanza al secondo piano del Palazzo, in relazione col quale Monica Barone, Valentina Barbarini, Carlotta Spaggiari e Tiziana Cappella hanno co-creato quattro azioni.
Queste poche righe sentimentali non vogliono certo riassumere, né tanto meno esaurire, l’avventura artistica di Pane, né quella di Lenz.
Alcune cose, però, le voglio dire.
Cinque cose, per l’esattezza.
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UNO
La specifica sul genere non vuole appoggiare inutili contrapposizioni. Desidero, al contrario, sottolineare come il segno femminile di Lenz allarghi la già vertiginosa esperienza estetica che l’esposizione offre: da noto a ignoto, da cristallizzato a dinamico, da museo a foresta.
DUE
Condividendo lo spazio con queste quattro dedite officianti vien da pensare ad alcune mistiche medievali (Ildegarda di Bingen, in primis), al loro itinerario verso Dio compiuto attraverso un percorso ascetico che implicava l’abbandono di riflessione razionale.
Alla loro teologia per immagini, intessuta di visioni fatte di luce e di voce che rimandano, etimologicamente, al teatro, come luogo di sguardi e, appunto, visioni, tesi alla catarsi e alla conoscenza.
Iconostasi, definisce Lenz queste azioni: un termine che, nell’origine greca, significa posto delle immagini.
Posto ma anche post, se mi è permesso il gioco di parole.
Non lo intendo in senso migliorativo (secondo una visione diacronica per la quale ciò che viene dopo è generalmente più evoluto di ciò che veniva prima), bensì nella direzione e nella dimensione della stratificazione: in un mondo in cui l’annichilente modello americano the easier the better predomina e schiaccia tutto e tutti, non è certo cosa da poco.

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TRE
Sul posto, ancora.
A me, in mostra, è capitata in particolare con quattro opere, la vertiginosa esperienza fisica del perdermici dentro.
Nelle metafisiche, metalliche geometrie del Contrappunto piano di Fausto Melotti del ‘73, nei vortici materici in bianco e nero di Emilio Vedova (Presenza dell’82), nell’incubotico, baconiano autoritratto di Zoran Mušič del 1980 e nella Scultura d’ombra di Claudio Parmiggiani, delocazione creata in situ nel 2010.
Opere come luoghi in cui sostare, scivolare, sprofondare, smarrirsi, ritrovarsi.
Teatro è luogo, nell’etimo e nella prassi, è sempre bene ricordarcelo.
Meglio: è luogo abitato da corpi (organici, materici, luminosi, sonori).
E questo le quattro artiste in scena in dialogo creativo, finanche creaturale con il corpo teatro (per dirla con Jean-Luc Nancy) di Pane lo testimoniano con furia e con grazia.
QUATTRO
Sulle immagini, ancora.
Ancor più che in passato, azzardo, questa creazione di Maria Federica Maestri articola una serie di limpide allegorie, dando corpo (ancora) a immagini evocanti significati altri rispetto a quelli offerti alla ricezione, che si moltiplicano nel dialogo ravvicinato con le opere di Pane.
Non vi è imitazione, ça va sans dire, ma continuazione (il post di cui si diceva poche righe fa), nuova incorporazione (spesso, letteralmente, tramite ribaltamento): messa in vita, nel senso di creazione di discorso.
Vale ricordare, in questo senso, il neologismo coniato da Francesco Pititto imagoturgia, a suggerire la possibilità delle immagini di costituire un livello di significazione discorsiva autonomo, ancorché interconnesso con gli altri piani del dispositivo scenico.
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CINQUE
In chiusura di queste note mi pare utile riportare alcune parole tratte dal testo che Marcel Duchamp pubblicò dopo che gli organizzatori del primo Salon des Indépendants di New York, nel 1917, rifiutarono di esporre la Fontana, il famoso orinatoio firmato Richard Mutt (nome di un fabbricante di articoli sanitari), di cui scrivevo in apertura: «Non ha nessuna importanza che Mutt abbia fabbricato la fontana con le proprie mani oppure no; egli l’ha scelta; egli ha preso un elemento comune dell’esistenza, e l’ha disposto in modo che il significato utilitario scompare sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto».
Al di là di (anzi: fortuna che ci sono!) siderali differenze stilistiche e poetiche, evviva l’arte che non smette di creare nuovo pensiero dando luogo a esperienze nutrienti, stranianti, strazianti, interroganti.
Il resto è intrattenimento, e non serve a nessuno.
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