Piccolo viaggio a Trasparenze Festival 2024

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Foto di Chiara Ferrin

Le strade che portano all’Appennino modenese, come molte negli altopiani o in montagna, sono  dissestate, ricche di tornanti, strette e con ben pochi guardrail a proteggere da eventuali cadute in dirupi. È parte del loro fascino selvaggio, o di quel che ne rimane, dal momento che le ruote su cui ci si muove sono quelle di auto o furgoncini e scorrono su colate di cemento. C’è un momento della giornata, però, in cui la natura si riprende il suo spazio, ovvero di notte, quando  l’ingombrante presenza umana si ritira di fronte a un buio denso e profondo: nessun lampione osa disturbare con la sua luce artificiale il cielo stellato e la fauna del bosco. Come tornare indietro stasera? Ci si scrolla di dosso questa preoccupazione, è un problema del futuro, e si prosegue verso la destinazione che ci si è prefissati. Lo sguardo, nel frattempo, si riempie di ampie distese di prati, i cui toni del verde sono accentuati dai raggi del sole cocente di fine luglio, mentre i fili d’erba danzano al vento attorno al giallo paglierino delle cosidette “rotoballe” che costellano il paesaggio.

Ci vuole insomma un piccolo viaggio per raggiungere Gombola, un borgo medievale a Polinago (MO) costruito su una cima rocciosa a strapiombo sul fiume Rossenna, dove da diversi anni Teatro dei Venti gestisce l’Ostello Podesteria, un castello risalente all’XI secolo, e realizza la sezione estiva di Trasparenze, un festival di arti performative co-diretto da Stefano Té (Teatro dei Venti) e ATER Fondazione, che quest’anno si è tenuto dal 24 al 28 luglio.
Qui la compagnia, da sempre impegnata in ambito sociale con percorsi teatrali sul territorio e, in particolare, nelle carceri, progetta e organizza workshop, eventi e percorsi culturali che si integrano con il paesaggio, mettendo in relazione i diversi spazi: dall’Ex Chiesa Parrocchiale di San Michele, fino al bosco e a tutta la rete di sentieri

Tempo lento

Giunti al borgo, sembra di capitare non solo in un altro tempo storico, ma anche cronologico. A Gombola durante Trasparenze, infatti, c’è una “calma vivacità”, un ritmo rallentato che fa riprendere fiato dall’imperterrita corsa quotidiana. Questa sensazione qui non è data dalla classica bolla dei contesti festivalieri, in cui il mondo “fuori” si sospende, ma dal contesto naturale circostante e da quel “silenzio” tipico delle zone montane. Inoltre, se ci si ferma in un angolo a osservare il pubblico che si aggira per la piazzetta, quella tra l’Ostello e la Chiesa, sembra di assistere a uno spettacolo “spontaneo”, in cui tanti personaggi usciti da un libro si muovono e interagiscono fra loro costruendo una storia tutta da vivere e scoprire. Gombola e i suoi spazi, insomma, paiono essi stessi teatro al di là dei numerosi eventi in programma al festival. 

Passeggiando per il festival

A tal proposito, la giornata di sabato 27 luglio è iniziata nel primo pomeriggio nella chiesetta ai piedi del borgo, dove si è tenuto Le finestre di Gombola: libri, incontri, esperienze, tre dialoghi per presentare In giro per festival: guida nomade agli eventi culturali, il libro di Oliviero Ponte di Pino e Giulia AlonzoIncontro al futuro: i teatri delle residenze in Italia, il volume a cura di Fabio Biondi e Lorenzo Donati; e la performance-installazione A piedi nudi sulla terra di Elio Germano dal romanzo di Folco Terzani. Si è trattato di speciali occasioni di approfondimento, che non si sono limitate a presentare i lavori in questione, ma anche a dialogare con gli autori attorno a temi cruciali per il sistema teatrale e culturale italiano contemporaneo: si è parlato di quanti e quali sono i festival oggi, dei concetti di ricerca e di residenza, delle diverse declinazioni del “fare comunità”, della perdita – e del necessario recupero – di alcune ancestrali pratiche umane capaci di farci riconnettere con il mondo che si abita. 

Foto di Chiara Ferrin

L’Italia e l’uomo medio

Tracciati, questi, che guidano gli sguardi nell’arco dell’intera giornata, la quale prosegue con altri appuntamenti tra performance, danza, teatro, passeggiate. Sono le 18.00 quando una voce femminile calma e accogliente, invita il pubblico a raccogliersi in piazza per Stracci. Contro l’uomo medio, un monologo di Vittorio Continelli e Mo-Wan Teatro, nato su commissione nel 2022 nel centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini. Tale occasione per Continelli diviene pretesto per riflettere sull’Italia degli anni ‘60 e di oggi, restituendo il suo personale punto di vista sulla società, sulla politica e sulla propria generazione. L’artista danza il twist sopra le assi di una minuscola piattaforma in legno, il suo arrangiato palco. Interpreta caricaturalmente sé stesso, ma anche Stracci, un uomo qualunque che si ritrova su un set cinematografico per interpretare il ladrone nella Passione di Cristo. Sono il contesto e il protagonista de La ricotta di Pasolini, uno dei suoi film cult che vide nel ruolo del regista – alter-ego pasoliniano – Orson Welles, il quale afferma: «l’uomo medio è un mostro». Da qui Continelli costruisce il suo monologo, che intreccia più livelli di narrazione e diversi temi: la grottesca vicenda di Stracci, morto per indigestione durante le riprese fra le risate dei colleghi; affondi sull’impronta politica e culturale lasciata da Pasolini – e dalla sua morte – nella Storia italiana; riflessioni sulla propria persona in relazione a tutto questo. Il pubblico più giovane potrebbe sentirsi lontano dal taglio e dalle estetiche di questo monologo: i “comizi” contro la politica italiana – come Continelli-Stracci stesso li definisce – e il senso di frustrazione – che a tratti prende la forma di una rassegnata lamentazione mista a una punta di nostalgia – sono i segni di una specifica generazione, quella nata fra la fine degli anni ‘60 e la prima metà dei ‘70. Ne esce il ritratto di un’anima tormentata, che porta il peso di un’eredità di cui dice di sentirsi orfano, affaticata dal non riuscire a liberarsi dalla “mediocrità dell’uomo medio” , prodotto di una società vista come malata e destinata a peggiorare ancora. 

Vittorio Continelli, foto di Chiara Ferrin

Danza, neve e poesia

Il tempo di una birra e di una (enorme e buonissima) fetta di torta alle mele fatta in casa, e si torna in piazzetta per assistere a Come neve, un delicato e ipnotico spettacolo di danza, coreografato da Adriano Bolognino e con in scena Roberta Fanzini e Noemi Caricchia. Il pubblico è attorno a uno spazio bianco, ricreato con un tappeto-danza, che a un certo punto viene abitato da due figure femminili. Sono vestite con abiti e cuffie di colori primari e dalla fantasia floreale, creati da “Il club dell’uncinetto”, un gruppo di donne che durante la pandemia ha riscoperto quest’arte e ne ha fatto un lavoro. Sono stati proprio gli abiti il punto di partenza di questa creazione che indaga il concetto di benessere e il significato di “stare bene” con sé stessi e con l’altro. Si tratta di un tema che emerge chiaramente nelle note di regia, ma che nella pièce resta sotteso: esso, infatti, si manifesta a livello sensoriale nell’atto stesso in cui si esperisce la performance. La bellezza data dalla precisione della tecnica del movimento, la meraviglia scaturita da una danza fluida e delicata quasi come se le due danzatrici volassero (o si posassero a terra “come fiocchi di neve”), le gonne colorate che disegnano moti circolari, destano nello spettatore uno stato di stordimento e offuscamento quasi si trovasse in stato di ipnosi. Affidandosi dunque al linguaggio poetico del movimento, la pièce comunica attivando una comprensione “altra” dalla ragione, che ha a che fare con le sensazioni e le emozioni. Usciti da questa bolla di trenta minuti, si sbattono infatti gli occhi come intorpiditi dopo un piacevole e inaspettato sonnellino estivo, leggeri. Il macro-tema del benessere, perciò, non è sviscerato tramite una tessitura propriamente narrativa, quanto mediante la costruzione di un’esperienza che stimola il senso della vista e dell’udito per trasmettere nei corpi e nelle anime degli spettatori la sensazione di “essere stati bene”.

Roberta Fanzini e Noemi Caricchia, foto di Chiara Ferrin

Pinocchio, un bambino vero

Piccola pausa per ricaricare le energie, con una cena al tramonto seduti a terra in buona compagnia, e ci si sposta all’Ex Chiesa di San Michele, suggestivo palcoscenico di Pinocchio di Babilonia Teatri, spettacolo realizzato con l’associazione Amici di Luca della Casa dei risvegli Luca De Nigris di Bologna. I protagonisti sono tre non-professionisti (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli) che, guidati dalla voce fuori campo di Enrico Castellani, anche regista insieme a Valeria Raimondi, portano in scena sé stessi e la loro storia di trasformazione dopo un incidente che ha causato loro il coma.  Il testo di Collodi fa da sottotraccia ai racconti frammentati e sospesi tra passato e presente, tra vita e morte; mentre il personaggio di Pinocchio – una presenza che, quasi come un fantasma, si aggira di tanto in tanto per il palco con un lungo e penzolante naso a punta, osservando la scena – è metafora di un faticoso percorso di riscoperta, accettazione e rinascita dopo il coma che ha stravolto completamente le vite di Paolo, Luigi e Riccardo. Sono in fila, uno accanto all’altro fronte platea, a torso nudo, e rispondono alle domande della voce-conduttrice, reagendo con ironia e sarcasmo, tentando di sdrammatizzare il trauma subito da quella improvvisa cesura fra ieri e oggi che non potrà mai più essere sanata. Lo spettacolo si mantiene in un delicato equilibrio tra sovraesposizione del dolore e la sua preservazione, grazie a un uso attento del gioco del teatro, che mette a nudo la verità di corpi e anime “trasformate”, permettendo allo spettatore di riconoscersi: in quelle auto o sopra la moto che guidava Riccardo, potevamo esserci noi. Siamo tutti esposti al rischio di un corpo atrofizzato, di una memoria ballerina, di una gamba zoppa, di una parola che fatica a formarsi e a uscire. Pinocchio siamo noi, esseri le cui vite e corpi sono fragili, facili da corrompere, in costante mutazione, nel bene e nel male, e in una complicata relazione con il deterioramento e con la morte. 

Pinocchio, Babilonia Teatri, foto di Chiara Ferrin

A piedi nudi

Una ri-connessione con il nostro corpo e la consapevolezza di essere corruttibili e finiti ci accompagna verso una piccola radura in mezzo al bosco, di notte. È qui che accade A piedi nudi sulla terra, l’installazione a cura di Elio Germano tratta dall’omonimo romanzo di Folco Terzani. Prima di poter accedere allo spazio “magico” – ispirato alla grotta Sadhu indiana, dove si accende il fuoco sacro Dhuni – si abbandonano i telefoni e ci si toglie le scarpe. Ci si addentra poi in un luogo puntellato da lucine gialle e si cerca a tentoni un posto dove sedersi o sdraiarsi a terra, avvolgendosi attorno a calde coperte per contrastare l’umidità del bosco. Di fronte, un falò viene alimentato da una figura seduta di profilo nella penombra, mentre dietro a delle tende si nasconde qualcuno intento a preparare qualcosa. Proveniente da lontano, la voce di Sadhu/Baba Cesare, un italiano che Folco Terzani incontrò in uno dei suoi viaggi in India, qui intrepretato da Elio Germano. In un flusso continuo di cinque ore (la durata dell’installazione), la “voce” di Baba Cesare narra alcuni episodi della sua vita da asceta, tra fuga dalla frenesia della città, riti sacri, rinunce, vicende in carcere, come se stesse rispondendo alle domande di un’intervista. Osservando il cielo stellato e le foglie degli alberi nell’ombra che si muovono, ci si sente cullati tanto da assopirsi, quasi diventando parte del terreno sottostante. Le figure prima rimaste nascoste, escono dalle tende con dei vassoi, prima per portare della frutta, poi per farci assaporare un Chai Tea. Ogni senso dunque è stimolato e le singole percezioni si mescolano fra loro in un’esperienza sospesa in uno spazio-tempo altro, in cui poterci sintonizzare con un diverso e inusuale ritmo, quello dell’ascolto e quello della natura,  più vicino all’umano. 

Ritorno, luna piena

In una sorta di climax, questa giornata a Trasparenze sembra aver voluto accompagnare il pubblico in un allenamento alla calma e al recupero di un ritmo più lento, per prendere fiato, tendere le orecchie, sentire la terra sotto i piedi e il vento fra i capelli, assaporare nuove pietanze, tornare ad aprire gli occhi per vedere oltre l’apparente e cogliere la moltitudine di colori del mondo. Ogni senso, dunque, si è acceso lungo un percorso di riscoperta della dimensione metafisica, ancestrale e sacra dell’umano in relazione alla natura.

È tempo però di scendere, nella notte, per tornare in città. Ci si immerge allora con la propria auto nel buio, disturbando la fauna dell’appennino, sentendosi di troppo e un tantino in pericolo. Per fortuna la luna è piena, rassicurante e di compagnia.