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Nei fumetti c’era lo Splash, quando qualcosa o qualcuno cadeva in acqua, c’era il Sob quando ci si dispiaceva, lo Slurp quando si gustava un cibo particolarmente succulento, il Mumble pensieroso. L’onomatopeico Zut ricorda un fulmine, un lampo, qualcosa di velocissimo che appare e lascia il segno, arriva a portare la luce, con sorpresa, dove prima regnava il buio. L’acronimo Z.U.T. è l’associazione culturale folignate che mette in piedi l’Umbria Factory Festival, un vero e proprio laboratorio di idee dislocato appunto tra Foligno, Spoleto e Cannara. Tra giovani, nuove prospettive, futuro, tecnologia, arte e modi diversi di affrontare la scena abbiamo trovato, anche quest’anno pane per i nostri denti critici, accompagnati nello sguardo da Stefano Romagnoli, lo spettatore professionista (con l’ambito gadget consegnato nel suo caveau) l’influencer famoso in tutti i teatri italiani. Potremmo iniziare con il racconto del percorso sensoriale al quale abbiamo partecipato diretti dalla visione dei movimenti di Luca Pagan nel suo Multi Node Shell, avvolto e aggrovigliato in cavi ed elettrodi sparsi e disseminati su torace e braccia. Il pubblico itinerante all’interno di una chiesa soffusa di luci rosse che introduceva in un mondo primordiale, primitivo, allarmante e ancestrale. Sul suo petto si accendono lucette verdi e blu, quasi un albero di Natale, sul body di questo Uomo bionico. Ad ogni gesto, di mani, dita, gomiti, spalle, torsioni, piegamenti, flessioni degli arti, corrispondono dei rumori in una coreografia da fermo (durata limitata, 20′, oltre sarebbe stata eccessiva per la proposta) ingegneristica che espande suoni mistici, striduli, disturbanti, esagerati, laceranti, horror, di frizione e frattura, d’abissi e distruzione, di grotta, eco, caverna e profondità, sibilanti e dirompenti, di tuono e valanga, di bassi a squassare il pavimento, a far vibrare casse toraciche e piante dei piedi. Si aggira e tocca le mani del pubblico ricreando una sorta di Creazione michelangiolesca tra i rumori strazianti e spaventosi da Strange Things, in un flusso continuo di azione e reazione, di attrazione e repulsione, con i rimbombi che aumentano e decrescono in un acciottolarsi magmatico. Sembra acqua inbizzarrita che scroscia e sassi in caduta libera a sfasciarsi, rompersi, infrangersi, disintegrarsi, echi d’Aldilà, di tsunami e Vajont, ora taglienti e ferenti e feroci e bruschi. Si percepisce il timore e l’allarme, il pericolo, il cigolio dell’Universo, lo scricchiolio sgradevole dell’abbandono, della perdita, nell’accavallarsi di segni e atti apotropaici. È un Inferno dai vetri rotti, di ugole distorte di uccelli in picchiata, di canti di sirene per niente rassicuranti. Pagan vaga famelico toccando l’aria e trasformandola in suoni da decriptare, decifrare, decodificare, di conflitti, di scontri, di lotte intestine, come un demone disturbante, come Atlante con il mondo sulle spalle, come Icaro prima dell’incontro con il Sole, come Prometeo incatenato. Purtroppo l’azione inizia e finisce senza alcun percorso, senza una crescita né un’evoluzione, rimanendo ancorata ad una performance che mostra uno strumento, una possibilità scenica senza metterla al servizio di un racconto, di una narrazione, di uno sviluppo drammaturgico.
Interessante e divertente il Concerto al buio agito da Teho Teardo, musicista e compositore attivo soprattutto nelle colonne sonore filmiche (vincitore di David di Donatello e Nastri d’Argento). Il suo ambito è quello del Noise, del Dark Ambient, della musica concreta. In un grande spazio ci accomodiamo a terra. Per l’occasione hanno tolto sedie e poltrone; rimane un hangar da vivere, abitare, invadere con i corpi sdraiandosi a terra, distendendosi, dormendo, sognando. A poco a poco si spengono le luci bianche, poi anche le rosse si affievoliscono e rimane solo una flebile sulla consolle, il resto è immerso nel buio in un rito collettivo dove ci lasciamo andare, con a fianco sconosciuti, con le palpebre socchiuse, nessun telefono acceso e tutto il mondo fuori. Un ritmo testardo scuote la terra, le arie sono d’incubo più che da ninna nanna rilassante ma l’esperienza è un respiro che ci riconnette a quello che significa stare insieme per condividere un evento senza la vuota retorica dell’happening. Assonnati, quando si riaccende la luce, riprendiamo le nostre sembianze, le nostre facce d’ordinanza, i tappetini da yoga e i cuscini per i previdenti che se li erano portati e, in un silenzio finalmente riconquistato, ci avviamo verso i nostri letti che stanotte avranno un sapore diverso, più intenso, più vero.
Lontano, anzi lontanissimo, dalle vane ambizioni del teatro nostrane, dal vuoto delle scene che non sanno più riempire l’immaginario, sta Giulio Stasi ai margini ma non emarginato. Ha scelto soltanto un’altra strada, quella del cammino, del percorso, dell’andare, del sostare con il suo furgone abbigliato a camper, lui, i suoi libri, il suo letto da una piazza e mezzo, il tavolo che esce a scomparsa, il caffè e il cioccolato al latte, la doccia e una porta scorrevole tra sé e le sue parole e il mondo là fuori che, almeno qui a Foligno, ha le sembianze di un parcheggio vicino al vecchio zuccherificio chiuso da decenni, implacabile, immobile e immenso di laterizi in lontananza ma che non può essere abbattuto perché nella sua pancia contiene e conserva grandi quantitativi di amianto. Nero l’asfalto, nero il caffè che serve alla fine della sua performance (tre spettatori alla volta ospiti del suo habitat naturale), nero il van. Nelle scorse stagioni ci eravamo già addentrati dentro questi luoghi a quattro ruote per vivere esperienze teatrali fuori dall’ordinario, di quelle che, negli anni, ancora te le ricordi: la Medea del Teatro dei Borgia, le roulotte di Caravan Kermesse di David Batignani e di Officina Oceanografica Sentimentale a cura di Samovar, il furgone degli Ilinx. Qui, in questo Un caffè sospeso c’è tutto un lato romantico, fragile, sensibile, di una dolcezza estrema: entriamo in casa di Stasi, in punta di piedi per ascoltare i suoi pensieri in audio mentre un corpo addormentato sta lì davanti a noi avvolto come un bruco. È buio dentro, siamo vicini, sentiamo i respiri. Solo un po’ di luce filtra dal grande vetro del guidatore. Quel corpo lascia il sonno, si spoglia, si fa una doccia, si veste ed è pronto per il rito del caffè. Siamo visitatori del suo mondo, nel suo piccolo universo dove non manca niente. Parole lontane dai suoi burrascosi della realtà del produrre, una parentesi in uno spazio altro, consapevole che s’interroga. È un nomadismo prima di tutto dell’animo, un tenersi vigile, un non fermarsi per consolazione ma sempre per scelta. Ci parla di territori nuovi, di scoperta, di conoscenza, di curiosità da rinnovare, di piccole abitudini che espandono ed esplorano il tempo mentre là fuori tutti corrono affannati perché dicono di non aver tempo. Stasi si rigenera, in un processo faticoso e complesso, diventa nuovo ogni notte, in ogni luogo che tocca, parcheggi che potrebbero somigliarsi ma che portano sempre assaggi e profumi di vita differenti. Come stare in una cambusa, in una stiva, come essere dentro Una tazza di mare in tempesta di Roberto Abbiati; siamo al sicuro e ci sentiamo in scatola, in gabbia, in trappola, una sensazione che però lascia subito spazio al luogo che pare micro ma che contiene infiniti angoli e punti di vista, spazi ridotti dove allenare la mente, la fantasia, l’immaginazione, un elogio al piccolo e al lento. Il suo è un penetrare nel paesaggio, nelle città, in un territorio, in un viaggio interiore denso e profondo, sempre rispettoso, gentile, con garbo e pazienza, lo sguardo accogliente, il tono della voce pacato, la poesia della normalità.
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