Nomen omen. Note sul Festival Voci dell’Anima 2024

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ph Luigi Ghirri

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«Il nome è un presagio», ma anche «un nome un destino», «il destino nel nome», «di nome e di fatto»: nelle diverse traduzioni della locuzione latina Nomen omen pare risiedere, in sintesi, la verace coerenza di un Festival che dal 24 al 30 settembre è accaduto per la ventiduesima volta, a Rimini.

Voci dell’Anima, si chiama.

Vorrei partire da lì, da quel nome, per restituire qualche nota sulla congruenza -senza proclami né sbandieramenti- di una manifestazione culturale che fa (semplicemente? rivoluzionariamente?) ciò che qualsiasi manifestazione culturale dovrebbe fare: accogliere, allargare, attraversare linguaggi.

Partire dal nome.

Meglio: dai nomi.

Voci. Anima.

Mi suggeriscono -e a mia volta suggerisco- due agganci poetici.

Le voci di un gigantesco quanto appartato autore, che vicino a Rimini è nato, nel ‘23, e a Rimini è morto, nell’81: Nino Pedretti.

Nella poesia che apre la raccolta Al vòusi, scrive «Se parlo il tedesco | adesso mi capiscono tutti. | Ma se parlo | la lingua di mia madre | allora faccio scintille | e delle giravolte | delle giostre, dei fiori | con le mie parole».

Penso a questi versi, e mi sembrano appropriati, non certo per attitudine nostalgica o localistica della programmazione 2024 del Festival diretto da Maurizio Argan con la collaborazione di Alessandro Carli (tutt’altro!), quanto per la centralità della Storia e del linguaggio verbale come scaturigine e nutrimento di un’arte che, si sa, ontologicamente scompare nell’esatto istante in cui accade.

 

ph Luca Deravignone

 

«Tu sei figlio di qualcuno» scriveva Jerzy Grotowski, gran Maestro del teatro del Novecento.

Perfettamente programmatica, in tal senso, l’apertura del Festival affidata a un altro Maestro, Marco Baliani, con lo spettacolo di culto Kohlhaas: è la creazione che ha di fatto dato avvio a un mondo teatrale -la narrazione- che prima, in Italia, semplicemente non esisteva.

Non starò a dire di questa perfetta macchina affabulante, delle esattissime direzioni, tensioni e intenzioni che trentacinque anni di vita e oltre 1.150 repliche han levigato e consolidato come un diamante (per chi volesse approfondire, ricordo il volume dello stesso Baliani Ho cavalcato in groppa a una sedia del 2010 che, a partire da questo spettacolo, racconta e riflette sull’atto poetico e politico del narrare).

L’unica cosa che desidero ribadire, in questa sede, è il valore progettuale, quasi di manifesto, di una tale presenza, a suo modo “antica” e al contempo vivissima: a dare avvio alle molte Voci, appunto.

Plurale fenomenologicamente salutare, in questo titolo: perfettamente organico che la molteplicità di stimoli proteiformi che per un’intera settimana ha attraversato il Teatro degli Atti (uno o due o anche tre spettacoli al giorno, in molti casi al prezzo di un solo euro a serata!) sia iniziata con un Maestro delle scene nazionali e terminato con un gruppo di giovanissime danzatrici di una realtà associativa del territorio: ci vuole fiducia nel futuro, a tracciare una linea così.

Ci vuole una visione.

Ci vuole anima.

Torno a un altro gran poeta, Walt Whitman, alla sua celebre domanda: «Ma se il corpo non è l’anima / l’anima cos’è?».

È una gran quantità di carnalissime essenze, ciò che è stato possibile incontrare nella settimana riminese.

Il titolo-tema dell’edizione 2024, Gli altri, ribadisce e rilancia quanto detto finora.

«Je est un autre» scrisse Arthur Rimbaud: alterità che costituisce l’essenza dell’anima incarnata di ciascuna e di ciascuno.

Sia detto per inciso: nell’etimologia della parola anima vi è il nome respiro: elemento che, si sa, è necessario a mantenere in vita qualsiasi organismo.

Tout se tient.

 

ph Dino Morri

 

A proposito: non è forse un caso che in queste brevi note stiano spuntando diversi poeti, e che la poesia abbia aperto ogni sera, grazie alla passione e alla cura di Teresio Troll e Loredana Scianna, la programmazione del Festival.

«Poeti laureati», per dirla con Eugenio Montale giustapposti a giovanissimi autori poco o nulla conosciuti, spesso evocati in connessione alle suggestioni emerse dagli spettacoli in programma, sera dopo sera.

Spesso non nominati, a porre al centro e consegnare la parola poetica in quanto tale.

Una poesia a tratti apparentemente ostica, che è forse plausibile collocare dopo la lirica (cito la preziosa raccolta curata per Einaudi nel 2005 da Enrico Testa) è quella che con ironia e partecipazione i due agitatori culturali Scianna e Troll hanno consegnato ogni sera a un minuto quanto attento uditorio, in dialogo con le suadenti bolle sonore di Michele La Paglia.

Recuperando l’etimo creaturale del termine poesia, questo piccolo accadimento ha introdotto, di sera in sera, gli spettacoli in programma, in due casi accogliendo, in presenza o in differita, le voci di altri poeti, Adriano Engelbrecht e Cesare Ricciotti (tramite la partecipe presenza di Giampiero Pizzol).

Come già per il capolavoro di Baliani, scopo di queste poche righe non è certo quello di esaurire, per dirla con Georges Perec, i molti significanti e significati delle creazioni in calendario.

Piuttosto inscriverle in una traiettoria curatoriale, costitutivamente plurale e linguistica, memoriale e organica.

Ecco dunque, con brutale sintesi, minimali note su alcune delle opere incontrate.

 

ph Dino Morri

 

Fa memoria, concretamente, di un artigianato teatrale antico e vivo Giuseppe³ di e con Carlo Ferrari e Franca Tragni.

A partire da tre figure arcinote, finanche archetipiche (Verdi, Garibaldi e San Giuseppe, sposo di Maria e padre putativo di Gesù), la creazione applica scenicamente la dinamica delle variazioni sul tema, consegnando alla platea il gusto di verificare grado e modalità di inventio a partire da un patrimonio culturale di conoscenze condivise.

A proposito di molteplicità, si è potuto verificare come l’ironia, temperatura scenica prediletta da questa affiatatissima coppia d’arte, sia in primis faccenda appunto culturale, se non addirittura territoriale (un esempio fra molti: l’esilarante battuta sul Festival Verdi di Parma, città da cui provengono i due artisti, certo maggiormente apprezzabile da chi quel luogo e quella manifestazione ha conosciuto o vissuto).

Ancora: giochi di parole sui titoli dei capolavori verdiani assestano l’incontro con la platea in un territorio culturale di conoscenze condivise, così come i cambi di personaggio a vista, le esatte reiterazioni drammaturgiche, i salti temporali, i déplacement e i rimandi interni ai diversi quadri collocano questo dispositivo nell’alveo pienamente, solidamente teatrale.

 

ph Dino Morri

 

A proposito di corpo e anima: Kea Tonetti ha proposto lo spettacolo Splendore, creazione di danza butō misteriosa e ammaliante.

Sulle tracce di Kazuo Ōno, l’opera ha esplorato la possibilità di un consistere denso, prima e forse al di là di ogni sviluppo drammaturgico evidente, di un corpo-teatro (Jean-Luc Nancy docet) che si offre alla ricezione, per così dire, oggettivamente.

Tonetti nei giorni del Festival ha anche guidato un seminario rivolto a persone curiose o appassionate: lo nominiamo a mo’ di sineddoche, senza ora elencare la nutrita serie di proposte laboratoriali offerte alla cittadinanza – un altro dei coup de théâtre che un Festival così piccolo è riuscito a mettere in campo.

 

ph Dino Morri

 

Doppia replica per La stanza di Agnese, premiato spettacolo che Sara Bevilacqua | Meridiani perduti teatro ha dedicato alla vita e alla morte di Paolo Borsellino, interpretandone la vedova: la mattina con alcune attentissime classi del territorio, con presenza e appassionato dialogo a seguire della figlia del giudice Fiammetta, la sera con e per tutto il pubblico.

Una netta geometria di luci e fondale a dar forma e forza, per contrapposizione, a una vicenda tanto carnale, dolente.

Pause dense, significanti. Sembra parafrasare Marguerite Yourcenar, la commossa e commovente presenza scenica di Bevilacqua: «Ho sempre creduto che la musica fosse il debordare di un grande silenzio».

Pochi oggetti zeppi di vita: un cumulo installativo di scarpe che ricorda certe creazioni memoriali di Christian Boltanski o Jannis Kounellis.

Un basso tavolino, una sedia da appartamento borghese.

Brevi inserti di musiche calde, avvolgenti.

Storia e storie: vien da pensare a Carlo Ginzburg.

«Ti posso accompagnare, gradisci?»: cose antiche, che sanno di buono.

 

ph Michela Cerini

 

Brindisino come Bevilacqua, è arrivato a Rimini anche Luigi D’Elia, portando il suo personalissimo stile nel declinare l’arte della narrazione, al contempo caldo e malinconico, schivo e appassionato.

Tra i molti modi di concepire l’accadimento teatrale, è l’unico nell’edizione 2024 del Festival che ha posto come primaria se non univoca scaturigine una fonte letteraria – La luna e i falò di Cesare Pavese, con il portato poetico e politico di tale scelta, fuori moda e dentro la società: «Non si parla solo per parlare. Si parla anche per farsi un’idea. Per fare il mondo».

Toglie letterarietà e aggiunge corpo, D’Elia.

E respiri, toni, spinte e direzioni: la memoria qui è un luogo.

Attraverso la parola, qui si edifica un luogo.

In altri termini, D’Elia pratica un’idea di arte della scena molto vicina a ciò di cui ragionava il gesuita francese Michel de Certeau, là dove rifletteva sulla «necessità di fondare il posto da cui [si] parla», precisando: «Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati (o «autorità») sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione».

Attore che si fa luogo e crea un luogo attraverso l’arte dell’attore e una drammaturgia, a cura dello stesso D’Elia, che intreccia narrazione ed evocazione, fatti e suggestioni, reale e onirico, azioni e immaginazioni.

 

ph Dino Morri

 

Fa la stessa cosa, ma con gli strumenti della danza, The old man del Collettivo Nanouk, offrendo alle persone in platea un ulteriore segno -stimolante e peculiare- di cosa possa chiamarsi danza.

Il percorso, in questo caso, muove senza posa, come su un piano inclinato, tra astrazione e narrazione, significati riconoscibili e puri significanti.

Un vecchio.

Un mostriciattolo verde.

Un gigante e due ragazzine.

Ma anche solamente tre biologie in azione, che compongono e scompongono assoli, duetti e trii, con una netta percezione etimologicamente coreografica, di limpida composizione di corpi nello spazio.

Gesti atletici, spinte ribattute, estensioni e sospensioni segnate da toniche espirazioni.

Musica lirica, dolente.

Alcuni elementi ricorrono, tra le figure: consegnano al pubblico la possibilità di creare connessioni significanti, senza chiuderle.

Opera aperta, per dirla con Umberto Eco.

Alla fine lui, il gigante, abbraccia ed è lasciato solo.

 

ph Dino Morri

 

L’ultima creazione a cui voglio accennare in questo fin troppo lungo articolo è opera della coreografa e danzatrice Nicoletta Cabassi.

Il blu accomuna un minimale paesaggio: luci, maglietta, parrucca.

Vien da pensare a quello brevettato da Yves Klein a metà del secolo scorso, vien da ricordare il già nominato Kazuo Ōno e alla sua prassi di danza come manifestazione dell’esistente.

Per inciso: vien da domandarsi perché, nell’arte, ciò che si presenta in quanto tale e potrebbe essere esperito sensorialmente e dunque a un livello organico, propriamente elementare, spesso venga recepito, al contrario, come concettualmente ostico, difficile de decriptare.

In dialogo con un bordone elettronico pulsante, una ieratica figura sta, tra inarcamenti, braccia protese e attraversamenti dello spazio in diverse direzioni.

Sembra qui di ritrovare Mary Wigman, pioniera della danza espressionista, la sua arte notturna, tanto intrisa di mistero, letteralmente streghesca, con tanto di vocalizzi e il solo correttivo di una maggior rarefazione.

Un’arte antidecorativa, esperienziale: antigraziosa come l’omonima scultura di Umberto Boccioni del 1912-13.

E come quella, e come questo Festival, alla ricerca di possibilità altre di uso poetico e politico del linguaggio.

A partire dal corpo: cioè, dall’anima.

Dalle sue molte Voci.

 

ph Dino Morri

 

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