C’è un ornitorinco a Reggio Emilia. Note su Visioni del Corpo del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto

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Jeff Koons, Play-Doh, 1994–2014

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L’ornitorinco, si sa, è quell’animale che lo guardi e mica capisci bene che cos’è.

Ha un suo fascino, però.

«È una delle cinque specie ancora esistenti che compongono l’ordine dei monotremi, gli unici mammiferi che depongono uova invece di dare alla luce dei piccoli», si legge su Wikipedia.

Quel geniaccio di Umberto Eco gli ha pure intitolato un saggio, uscito per la prima volta nel 1997: Kant e l’ornitorinco.

Lì scrive di molte cose fascinose e complesse, Eco, anche sul «realismo contrattuale». E ragiona di schemi cognitivi.

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CANI, GATTI, MELE O SEDIE

Secondo lui, per capire cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie, abbiamo bisogno di categorie, che gli schemi cognitivi ci aiutano a creare: per attribuire un significato a qualcosa bisogna riuscire a inquadrarlo, a metterlo in una cornice, a dargli un’etichetta.

Uno dei modi, nel mondo dell’arte, per inquadrare un’opera è collocarla in un determinato genere: è una nozione da tutti noi continuamente utilizzata, anche se spesso in maniera inconsapevole, come strumento per individuare caratteristiche testuali a cui riferire significati.

Quando andiamo al cinema, ad esempio, sappiamo che stiamo vedendo un melodramma, un western, un horror, un classico, un moderno, un postmoderno, un action movie o chissà che altro, e, a partire da questa etichetta possiamo, ad esempio, valorizzare il film proprio a partire dall’individuazione di una variazione, di uno scarto, rispetto al genere in cui lo abbiamo incasellato.

La stessa cosa accade, se ci pensiamo, negli universi dello spettacolo dal vivo e della fruizione artistica e culturale. Il plurale non è casuale: chi di noi frequenta, anche saltuariamente, i teatri conosce bene le enormi differenze esistenti tra i pubblici.

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GUSTI, CONSUMI, RETI SOCIALI

Dovesse interessare: di tali questioni si è intensamente occupata, negli ultimi cinquant’anni, la “sociologia del gusto”, a partire dal fondativo saggio La distinzione. Critica sociale del gusto, di Pierre Bourdieu.

La tesi del sociologo e filosofo francese è (detta schematicamente): le pratiche di apprezzamento e di consumo culturale sono determinate da network sociali pre-esistenti. Gli studi successivi arrivano a valutare vero anche l’esatto contrario: sono i diversi stili di consumo e apprezzamento culturale a generare le reti sociali.

Cioè: abitiamo una società in cui il gusto si converte “all’istante” in forme di relazione tra individui, e il consumo culturale offre una base per interagire tra soggetti con interessi simili.

Il gusto diventa un modo per costruire reti, insomma.

Ciò porta, è molto facile verificarlo, a far sì che chi frequenta i musei molto di rado lo si veda a uno spettacolo di danza, chi ha l’abbonamento alla Stagione di Prosa difficilmente ascolterà musica contemporanea, eccetera.

Ovviamente a dirla così, per necessità di sintesi, si perdono mille sfumature, articolazioni e complessità, ça va sans dire… ma che mescolare gusti, fruizioni e percezioni sia esperienza non comune, perché più faticosa del suo opposto, è cosa certa.

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Nicolas Ballario

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FARSI SCOMPAGINARE

Partecipare a uno degli appuntamenti del ciclo Visioni del Corpo, in Fonderia a Reggio Emilia lo scorso 18 ottobre, fa pensare che Umberto Eco, ancora una volta, ci aveva azzeccato.

E Pierre Bourdieu, anche.

Il progetto è voluto dal Centro Coreografico Nazionale Aterballetto e pensato insieme al critico e divulgatore d’arte Nicolas Ballario.

Sei appuntamenti, tra maggio e novembre. I prossimi: questa sera e il 29 novembre.

Sia detto chiaramente: chi può, vada.

Meglio: chi ha voglia di farsi un po’ scompaginare pensieri e categorie, vada.

Ad ogni appuntamento ci sono un/a coreografo/a diverso/a e un tema che cambia, così come mutano le artiste e gli artisti che Ballario presenta.

Quel che non muta è il multiforme rapporto tra le due parole in maiuscolo del titolo: Visioni e Corpo.

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IL NOTO

Ogni azione comunicativa efficace, si sa, comporta una equilibrata giustapposizione di opposti.

L’incontro col noto e l’affacciarsi sull’ignoto costituiscono lo studium, per dirla con Roland Barthes, di questo progetto.

Ballario ha un approccio rassicurante: bonario e gioviale, sideralmente distante dalla oscura spocchia di molti esperti d’arte felici di crogiolarsi tra gli happy few che colgono significati al volgo negati.

Sa di quel che parla e lo racconta con precisione e passione.

Ecco il punto: lo racconta.

Trasforma poetiche in narrazioni, traduce estetiche in affabulazioni, puntellando tutto con aneddoti ora buffi, ora malinconici: le gare di Jeff Koons bambino per il più bell’albero di Natale del quartiere e la sua folgorazione per l’abito scintillante di Salvador Dalì, ad esempio.

E non disdegna l’esplicitazione di una propria visione del mondo, finanche di una morale: ed è cosa -che il racconto possa o debba contenere un insegnamento- che la cultura cattolica che ci impregna -che vi si aderisca o meno poco cambia, in tal senso- ci ha reso esperienza nota.

Ballario è uno a cui vien facile affidarsi, in questo viaggio: una guida sicura, che rassicura.

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L’IGNOTO

L’ignoto è invece rappresentato dalle opere che racconta: la cui bellezza, per usare un termine scivolosamente vago, non sempre è riconducibile a esibizione di perizia, imitazione del reale ed espressione di emozioni, tre fra le categorie che più comunemente si associano a ciò che chiamiamo arte.

L’ignoto, ancora, è rappresentato dalla danza che accade: spesso lontana dall’immaginario romantico del corpo sottile, proteso verso il cielo, leggiadro, finanche disincarnato.

Nella serata a cui abbiamo partecipato, una coreografia di Riccardo Buscarini per due dedite interpreti, a comporre geometrie specchianti, sincroni flessuosi, allungamenti e rotazioni, precisi intrecci di arti e busti, a dar luogo a un millimetrico equilibrio richiamante, per tornare al mondo delle arti visive, a certi mobiles di Alexander Calder.

Ma soprattutto, ancora, l’ignoto sta nell’ibridazione di mondi diversi: Visioni e Corpo, Arte visiva e Danza.

Queste discipline, vale ricordarlo, condividono codici legati alla spazialità e alla temporalità. In arte visiva, lo spazio è tendenzialmente fisso / fissato, ma può contenere elementi di movimento attraverso, ad esempio, la rappresentazione e l’uso di linee dinamiche, colori e prospettiva. Nella danza, il movimento reale del corpo occupa e modella lo spazio.

Il pubblico, in tale sfaccettata relazione, assume il ruolo di “decodificatore” dei segni, elaborando interpretazioni diverse basate sulle diverse esperienze sensoriali e culturali.

Questo processo porta chi osserva a “leggere” il corpo come testo visivo e, al contempo, l’immagine come materia mobile, vivente, finanche organica.

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Jeff Koons, Bouquet of Tulips, 2019

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EREDITÀ AMERICANA

Vien da pensare al Black Mountain College, che per chi si trovasse a leggere queste righe e non lo conoscesse merita qualche spiegazione, tanto è stata centrale quella rivoluzione.

Attivo negli Stati Uniti dal 1933 al 1957, è considerato un punto di riferimento per l’integrazione e l’ibridazione delle arti. Fondato con un approccio progressista e sperimentale, il College ha riunito artisti, scrittori, musicisti e coreografi, creando un contesto unico in cui le arti visive, la letteratura, la danza, la musica e la filosofia si influenzavano reciprocamente in modo profondamente innovativo. Tra i suoi membri e ospiti: Josef e Anni Albers, Merce Cunningham, John Cage e Robert Rauschenberg.

L’eredità forse più significativa del Black Mountain College è l’approccio interdisciplinare e collaborativo, che incoraggiava gli artisti a sperimentare nuovi linguaggi senza separazioni rigide tra le discipline. Ad esempio, le performance di danza di Cunningham erano spesso accompagnate dalle sperimentazioni sonore di Cage, mentre le scenografie e le installazioni di Rauschenberg contribuivano a superare i confini tra arte visiva e performativa. Questa interazione ha permesso di sviluppare una concezione dell’opera d’arte come esperienza multilinguistica, collettiva e spesso partecipativa, influenzando non solo le Avanguardie artistiche degli anni ’60 e ’70, ma anche movimenti successivi fino a oggi.

Fino a Reggio Emilia, forse.

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