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Il filosofo spagnolo Joan-Carles Mèlich, nel saggio Essere fragili. Riflessioni sulla vulnerabilità recentemente pubblicato da il Saggiatore, definisce la filosofia letteraria come un modo di fare filosofia che si discosta dalle tradizionali strutture sistematiche e astratte, prediligendo un approccio frammentario, narrativo e radicato nell’esperienza concreta, in primis corporea, dell’esistenza umana.
La filosofia letteraria non cerca verità assolute né costruisce teorie definitive; si muove tra le parole come una sonda, riconoscendo la complessità, la contingenza e il carattere irripetibile di ciascuna vita, di ogni biologia.
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COS’È LA FILOSOFIA LETTERARIA?
La filosofia letteraria suggerita da Mèlich si fonda su tre principi:
Il frammento come forma privilegiata: Mèlich utilizza il frammento per sottolineare l’impossibilità di circoscrivere la realtà in un sistema univoco e coerente. I suoi testi, brevi e incisivi, non costruiscono un discorso chiuso, ma invitano a riflettere autonomamente, trovando nel non detto uno spazio creaturale di pensiero. Mèlich si concentra sull’idea che la fragilità non sia un difetto da correggere, ma una condizione da abitare.
La narrazione come forma di pensiero: la filosofia letteraria si avvicina alla letteratura non per spiegare, ma per raccontare. Le storie, per Mèlich, hanno la capacità di rivelare ciò che i concetti astratti non possono cogliere: la poetica complessità dell’esistenza umana. A tale scopo in queste pagine convoca, tra gli altri, Le onde di Virginia Woolf e le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, Lettere a Milena di Franz Kafka e Moby Dick di Herman Melville.
L’attenzione alla singolarità: la filosofia letteraria di Mèlich rifiuta le astrazioni totalizzanti della metafisica tradizionale, concentrandosi invece sulla singolarità delle esperienze e delle relazioni. Ogni frammento, ogni racconto è unico e irripetibile, proprio come le vite che tenta di descrivere, rivolgendosi senza posa «alla singolarità dei nomi propri».
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CRITICA ALLA METAFISICA ASSOLUTISTA
Mèlich si colloca nella scia di pensatori che hanno decostruito l’idea di una verità unica e immutabile.
Egli critica la metafisica occidentale tradizionale per la sua ossessione di ordinare il caos dell’esistenza umana attraverso concetti universali e atemporali, come il Bene, la Giustizia o Dio.
Sottolinea come la fragilità sia, invece, un elemento costitutivo della vita e non un problema da risolvere attraverso sistemi filosofici o religiosi.
Per Mèlich, il problema della metafisica non è solo teorico, ma anche etico. L’imposizione di verità assolute cancella la singolarità e la complessità delle esperienze individuali. Egli propone un pensiero che accetti la precarietà e il carattere irripetibile di ogni vita, rifiutando il bisogno di risposte definitive.
Mèlich non rifiuta completamente la metafisica, ma la ripensa in chiave esistenziale e quotidiana. Invece di cercare l’assoluto, egli invita a guardare alla vita concreta, fatta di relazioni, gesti e narrazioni. Questo approccio richiama il pensiero di Emmanuel Levinas, per il quale l’etica è prima della metafisica e si fonda sull’incontro con l’altro.
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FRAGILITÀ E TEMPORALITÀ: IL RIFIUTO DELL’ETERNO
Un altro aspetto del rapporto di Mèlich con la metafisica è la sua riflessione sulla temporalità. La metafisica tradizionale ha spesso privilegiato l’eterno rispetto al temporale, il fisso rispetto al mutevole. Mèlich, al contrario, sottolinea che la fragilità è intrinsecamente legata alla temporalità: vivere significa accettare il passare del tempo, la perdita e la finitezza.
Questo tema trova una risonanza nel pensiero di Martin Heidegger, per il quale l’essere umano è un “essere-per-la-morte”. Tuttavia, mentre Heidegger si concentra sull’angoscia esistenziale, Mèlich pone l’accento sulla possibilità di trovare significato nella precarietà stessa, non attraverso l’isolamento metafisico, ma nell’incontro con gli altri e con il mondo.
In definitiva, il suo rapporto con la metafisica è dialettico: da un lato, egli ne critica l’ambizione di superare la fragilità umana; dall’altro, ne rivaluta l’importanza se intesa come un’apertura alla complessità e al mistero della vita. La sua filosofia invita a ripensare la metafisica come un atto di accettazione, più che di controllo, e a trovare nelle storie e nelle relazioni il vero spazio per esplorare ciò che ci rende umani.
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GRAMMATICA COME RELAZIONE COL MONDO
La concezione di grammatica di Joan-Carles Mèlich è uno dei temi centrali del suo pensiero filosofico e trova ampio spazio in Essere fragili.
Per Mèlich, la grammatica non è semplicemente un insieme di regole linguistiche, ma una metafora profonda per comprendere come gli esseri umani costruiscono il significato delle proprie vite, intrecciando norme, valori e narrazioni che danno forma alla realtà.
La “grammatica”, nel senso filosofico proposto dall’autore, si pone come un’alternativa all’etica normativa e alla metafisica tradizionale. Non è qualcosa di rigido o immutabile, ma piuttosto un sistema aperto, in continua trasformazione, che nasce dall’esperienza concreta e dalle relazioni umane.
Per Mèlich, la grammatica è un modo di “abitare il mondo”, una struttura che ci permette di interpretare le situazioni e di agire di conseguenza. Tuttavia, questa grammatica non è universale o assoluta: è una grammatica della fragilità, radicata nella contingenza e nella singolarità di ogni esperienza umana.
Vien da pensare a Ludwig Wittgenstein, che nelle Ricerche filosofiche descrive il linguaggio come una “forma di vita”, un insieme di giochi linguistici che non può essere ridotto a regole rigide. Allo stesso modo, Mèlich considera la grammatica come qualcosa che si apprende e si modifica attraverso le esperienze, le relazioni e le storie.
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IL CORPO COME LUOGO DELLA FRAGILITÀ
Mèlich concepisce il corpo come lo spazio in cui si sperimenta la fragilità in modo diretto e ineludibile. La malattia, il dolore, l’invecchiamento, la morte: tutti questi fenomeni non sono astratti, ma corporei. Anche le emozioni più profonde, come l’amore o la paura, sono vissute nel corpo.
Questa prospettiva richiama il pensiero di Maurice Merleau-Ponty, che nella sua Fenomenologia della percezione insiste sul corpo come soggetto dell’esperienza, in contrasto con la tradizione cartesiana che lo riduce a oggetto.
Per Mèlich, come per Merleau-Ponty, il corpo non è separabile dalla mente: è attraverso il corpo che viviamo, sentiamo, comprendiamo.
Un aspetto etico centrale per Mèlich è il corpo non solo come esperienza personale, ma anche come spazio di responsabilità verso gli altri. La fragilità del corpo altrui ci interpella e ci obbliga a rispondere. Questo tema richiama il pensiero di Emmanuel Levinas, filosofo citato a più riprese nel saggio, che considera il volto dell’altro come un appello etico.
Mèlich trasforma questa idea sottolineando che il volto, il corpo, il gesto dell’altro sono il luogo in cui si manifesta la nostra responsabilità: il corpo è una narrazione vivente della condizione umana, un intreccio di vulnerabilità, bellezza e responsabilità.
In tale direzione va una breve quanto illuminante analisi del Ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, che da sola varrebbe l’intero volume.
In definitiva, il corpo, per Mèlich, è il luogo in cui la fragilità si trasforma in cura, relazione e significato.
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IN CONCLUSIONE
Essere fragili è un invito a riconoscere nella vulnerabilità la nostra vera forza.
Joan-Carles Mèlich ci accompagna tra le pieghe dell’esistenza, dove il corpo, il dolore e l’amore raccontano la profondità, finanche l’imperscrutabilità dell’essere umano.
Un piccolo libro che ci ricorda che nella fragilità non c’è solo debolezza, ma anche bellezza, verità e possibilità di rinascita.
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