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Quello che non puoi nascondere, mettilo in evidenza: così si diceva, nel teatro di una volta.
Quello che non posso nascondere, io, è la mia origine proletaria, l’attitudine sempliciotta, di gente alla buona.
Ecco che, qualche giorno fa, trovarsi tra i «pochi ospiti selezionati» (come si legge in QUESTO ARTICOLO, in cui si posson rintracciare i nomi e le facce) di un evento nel centro di Firenze, a Palazzo Strozzi, è cosa che sposta.
Spaesa.
Richiede prendere in prestito un abito elegante, un cappotto e una borsa di cuoio. E quelli, li ho trovati.
Soprattutto: richiede curiosità per quello che è diverso da me. E quella, per fortuna, non manca.
L’occasione: la presentazione della creazione video realizzata a partire da Sentieri #11, che Azul Teatro ha realizzato nel 2023 al Paradiso dei Conigli, una minuscola vigna sull’Isola del Giglio.
Del progetto appartato e visionario di Serena Gatti e Raffaele Natale ho già scritto QUI.
Ora non mi ripeto.
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OCCASIONE DI DIVERTIMENTO
Quel che vorrei sottolineare in queste righe, a partire dalla mia piccola, personale esperienza da ragazzo di campagna (perché alla fine non si può che partire dalla propria piccola, personale esperienza, forse) è la qualità divertente di questa occasione.
Uso questo aggettivo sia nell’accezione comune (quanta allegria, nel travestirsi da persone eleganti, per qualche ora!) sia in quella etimologica del «volgere altrove».
Il primo altrove che questo appuntamento ha attraversato è il dove.
Sentieri, di consueto, accade in luoghi dismessi o abbandonati, solitamente non accessibili.
Trovarsi nel centro di una delle più famose e frequentate città d’arte del mondo, in uno dei Palazzi storici più prestigiosi (sede, com’è noto, di esposizioni dal richiamo nazionale et ultra) fa sì che il Grande Teatro del Mondo, per dirla con Calderón, irrompa nella delicata operazione estetica di Azul, travolgendola.
Snaturandola, qualcuno potrebbe dire. Un po’ come appoggiare un origami in sottilissima carta di riso in mezzo a un’autostrada zeppa di TIR.
Offrendone nuove forme di ricezione significante, qualcun altro potrebbe ribattere: senza quel silenzio attento, finanche quel sensibile svuotamento, che solitamente è la pre-condizione perché Sentieri possa anche solamente iniziare a esistere.
Non è mai da me -e men che meno in questo caso- emetter giudizi sommari.
Molto più proficuo, credo, è dar voce alle domande che questo inedito accostamento ha generato.
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SGUARDO E MATERIA
Le domande di Sentieri, anche in questa inusitata forma, hanno radicalmente a che fare con lo sguardo.
E con la materia.
Problematizzano lo statuto ontologico dell’opera, direbbero quelli che parlano bene.
Ci interrogano su quale sia il punctum, scriverebbe Roland Barthes.
Generano domande su cosa sia l’opera e su come il mio posizionamento la crea, o almeno contribuisce a crearla, penso io.
Una delle caratteristiche peculiari di Sentieri è che la scrittura nello e dello spazio suggerisce punti di attenzione -o fuochi poetici- senza mai imporli: azioni anche minuscole accadono (a volte dietro a un fitto cespuglio o una finestra semichiusa, ad esempio) e, in mancanza di esplicite sottolineature su cosa e quando guardare, è demandata alla temporanea piccola comunità di attenti camminanti la responsabilità dell’incontro con le forme in movimento a cui questi artisti danno avvio.
Al contrario, la scelta delle inquadrature e il successivo montaggio cinematografico non possono non guidare lo sguardo: ora su un dettaglio dello spazio o di un corpo, ora su un largo orizzonte, eccetera.
A monte -o forse di conseguenza- vi è un altro sdoppiamento letteralmente costitutivo.
Le arti sceniche dal vivo, si sa, accadono in un irripetibile qui e ora.
Nel caso di un’architettura dell’impermanenza come Sentieri, tale caratteristica è elevata a progetto, finanche a struttura.
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PRESENZA E MONTAGGIO
Detto altrimenti: l’analisi del rapporto tra questo ciclo di accadimenti e una ancorché puntiforme trasduzione cinematografica può partire dall’osservazione che teatro e cinema sono linguaggi distinti, ciascuno con un proprio sistema di segni e un proprio insieme di codici espressivi.
Sebbene entrambi condividano elementi narrativi, visivi e performativi, la natura dei segni e il modo in cui vengono decodificati dallo spettatore differiscono profondamente.
Il teatro è intrinsecamente un’esperienza dal vivo, costruita sul rapporto diretto tra performer e pubblico, all’interno di un momento unico che esiste solo in quell’istante e non può essere replicato. La dimensione spaziale è vissuta nella sua concretezza: il palcoscenico, ancor più se collocato fuori dai teatri, come appunto accade in Sentieri, è un luogo fisico e simbolico, una cornice in cui ogni gesto, parola e movimento degli attori assume valore comunicativo immediato. Un esempio paradigmatico è il teatro di Bertolt Brecht, che con il suo “effetto di straniamento” rompe la quarta parete per ricordare allo spettatore la natura artificiale dell’evento teatrale, spingendolo a un’analisi critica.
Nel contesto della danza, opere come quelle di Pina Bausch (cito la coreografa tedesca perché mi pare che il sistema di significanti e significati messo in opera da Azul le sia affine) trasformano il corpo umano in un segno complesso che può trasmettere emozioni, narrazioni e concetti astratti. Il teatrodanza (ma io preferisco la definizione danza-teatro) di Bausch -e, mutatis mutandis, di Azul- si nutre della presenza fisica e emotiva degli interpreti, creando una comunicazione diretta che il pubblico percepisce in modo viscerale, o comunque non solo razionale.
Il cinema, al contrario, elimina la dimensione dell’immediatezza a favore di una costruzione mediata. La macchina da presa seleziona, isola e guida l’attenzione dello spettatore attraverso inquadrature, angolazioni e movimenti. Il montaggio, poi, sovverte la continuità spazio-temporale del teatro, creando connessioni e ritmi nuovi.
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UN LINGUAGGIO IBRIDO
Ci sono casi in cui il teatro e il cinema non si limitano a traslarsi l’uno nell’altro, ma si contaminano. Un esempio è il lavoro di Robert Wilson, regista teatrale che incorpora nelle sue opere elementi visivi e ritmi cinematografici, creando un’estetica visivamente spettacolare che rompe i confini tra teatro e film.
Allo stesso modo Peter Brook, con il suo film Marat/Sade (1967), utilizza la macchina da presa non solo per registrare l’opera teatrale, ma per rielaborarla, sfruttando il linguaggio cinematografico per enfatizzare i conflitti interni dei personaggi e il dinamismo della scena.
Questo è, mi sembra, ciò che facciano -per via evocativa più che descrittiva- gli espedienti della trasduzione filmica di Sentieri #11 (in primis attraverso l’utilizzo di alcuni droni, con spettacolari riprese dall’alto e fulminei movimenti di macchina).
La danza offre un esempio ancora più chiaro di questa dialettica.
Nel film Pina di Wim Wenders (2011), le coreografie di Pina Bausch, pensate per il teatro, vengono traslate nel linguaggio cinematografico attraverso l’uso del 3D, che trasmette la profondità spaziale e la fisicità del linguaggio coreutico.
In questo caso, come in quello, il film pare non limitarsi a registrare l’opera originale, ma ne esplora nuove potenzialità espressive, facendo del cinema un’estensione del linguaggio teatrale.
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INFINE. O DAL PRINCIPIO
Animula vagula blandula
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
«Animuccia vagabonda, leggiadra / ospite e compagna del corpo / In quali luoghi andrai ora»: la monca traduzione di questi celeberrimi versi mi aiuta a suggerire (non certo a definire) la prima e ultima domanda che quest’arte -come forse ogni Arte, quando è tale- pone.
Una interrogazione senza fine sulla complementarità di vita e morte, di biologie e di ciò che è altro dalle biologie, di linguaggio e di ciò che qualsiasi linguaggio non può significare, nonostante la piena sincerità, la totale dedizione di un autore, di un’autrice.
«L’infinito inizia qui»: il materiale filmico incontrato a Palazzo Strozzi comincia con un sorvolo, un puntiforme baluginare in bianco e nero che solo dopo un po’ si scopre essere mare.
Affiorano i meditabondi versi di Serena Gatti, la sua voce antica, su un tappeto d’archi dolenti.
Sembra un passaggio di un precedente capolavoro di Wenders, Il cielo sopra Berlino, con gli angeli incappottati che osservano e poi si slanciano nella vertiginosa impresa del ricordare, del nominare.
Invisibili e al contempo carnosi, presentissimi ma impalpabili, qui e non qui, come in una delocazione di Claudio Parmiggiani: come fantasmi, testimoni di qualcosa che ci trascende.
Questo l’Arte ci ha incoraggiato a fare, nel centro di Firenze.
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