Contener moltitudini. Dialoghetto (beckettiano) su evə di Teatri di Vita

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ph Massimiliano Ferrante per mamiphotostudio

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IN PRINCIPIO

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».

Inizio un po’ impegnativo, per un articoletto su una cosa effimera come il teatro, che nell’esatto istante in cui accade, letteralmente, scompare.

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RICOMINCIAMO, ALLORA

In principio era Marilyn Monroe.

Meglio.

Meglio: in principio era Yasumasa Morimura.

Chi?

Yasumasa Morimura.

Ah ecco. E chi è?

Un artista giapponese, uno che si appropria di immagini di opere di artisti storici e le riproduce come proprie sviluppandole. Lo dice anche Wikipedia, qui.

Cosa centra questo Morimura con Marilyn?

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INIZIAMO CON UNA FOTO?

Eccola.

 

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È un’opera del 1995, di Yasumasa Morimura, si intitola Self Portrait as Marilyn Monroe.

Quindi?

Cosa noti?

Questo la imita ma non è mica uguale, alla mitica Marilyn.

Come lo sai?

La conosco!

Chi?

Marilyn Monroe: so come è fatta.

Come lo sai?

Lo sanno tutti!

Lo sa anche questo Morimura?

Credo proprio di sì!

E quindi?

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E QUINDI?

Quindi, forse, ci sono opere che servono a farsi ammirare. Altre che servono a farci fare un lavoro.

Senti, io lavoro già abbastanza, quando vado a teatro mi voglio divertire, mi voglio spensierare.

Un lavoro di tipo concettuale: mentale. In questo caso, credo, come per evə di Teatri di Vita che abbiamo visto al Teatro Piccolo di Forlì il 25 ottobre nell’ambito della Stagione di Contemporaneo.

Aspetta aspetta: cosa centra Eva con Marilyn?

Non Eva, evə.

Eh?

evə: la prima e l’ultima lettera sono una il riflesso dell’altra. Qui il punto non è un personaggio, la biblica Eva, ma il suo moltiplicarsi, il suo riflettersi. Il testo di partenza, di Jo Clifford, è un monologo, che Andrea Adriatico ha moltiplicato per sei, come i corpi in scena.

Ho capito. Forse. Ma quella e rovesciata non è lo schwa?

Sì: è il segno della fluidità di genere. Che rimanda al lavoro che lo spettacolo fa fare.

Ancora lavoro? Te l’ho già detto: io a teatro mi voglio divertire, mi voglio spensierare.

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EDIFICARE PONTI

Oggesù! Quali ponti? Io mica faccio il muratore!

Fuochino!

Quale fuochino? Non faccio nemmeno il cuoco! Io sono impiegato di concetto!

Fuochino: oggesù!

Cosa centra Gesù coi ponti, adesso?

Il cristianesimo occupa uno spazio decisivo, preponderante anche se non esclusivo, nella cosiddetta culla dell’Occidente e quindi è parte di tutti noi europei, che lo vogliamo o no, credenti e non credenti. Ne è riprova quanto le Figure che lo rappresentano sono parte del nostro linguaggio.

E i ponti? Quali ponti?

Quelli tra ciò che conosciamo e la forma che ci è data a incontrare. Tra la Marylin che abbiamo in mente e quella un po’ stramba di Yasumasa Morimura. Tra la storia biblica che abbiamo in mente e quella gender-fluid che lo spettacolo di Teatri di Vita ci consegna. Tra l’idea di buona prova d’attore come virtuosa esibizione di téchne e quella lineare delle persone in scena in evə, tra la concezione di arte teatrale come incarnazione di emozioni e sentimenti contrastati e contrastanti e quei corpi intubati, intunicati, come in una sala operatoria, o in un ospedale. Come un teatro anatomico: corpi esposti in piena evidenza, per quel che sono.

Non mi parlar di ospedali, guarda, che è stato ed è un periodino…

A proposito: questo spettacolo è stato creato durante il lockdown, è la prima produzione post Covid di Teatri di Vita.

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E CHIUNQUE STA IN MEZZO

Lo dicevano in continuazione, le sei persone nei tubi: i maschi, le femmine…

…e chiunque sta in mezzo. Sì. Ti dà fastidio?

Diciamo che mi piacciono le cose più ordinate, ma oggi ormai non si capisce più niente.

E il teatro cosa deve fare, secondo te, in questa confusione?

E tre! Farmi di-ver-ti-re! Farmi spen-sie-ra-re! Sbaglio?

Non sbagli. Ciascuno cerca nell’arte che vede, o che fa, quel che più desidera. Chi decorazione, chi ammirazione, chi rivoluzione. L’arte, come ogni persona, contiene moltitudini: lo diceva anche Walt Whitman.

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ph Massimiliano Ferrante per mamiphotostudio

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RIVOLUZIONE… NON ESAGERARE!

Sì vabbè, rivoluzione mi pare francamente eccessivo. Rivoluzione di che, poi?

Dello sguardo.

Eh?

Accorgersi che come noi guardiamo le cose, che i nostri pre-giudizi sull’arte, sulla religione, sulla cultura, condizionano in maniera determinante la nostra esperienza estetica. E che accorgersene è già una piccola, personale, possibile rivoluzione. Non mi par poco, per uno spettacolo.

Ah.

Eh.

E noi?

Prego?

Dico, e noi?

Non capisco.

Qual è la nostra parte in tutto questo?

La nostra parte?

Non aver fretta.

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DIDI E GOGO

Cerchiamo di conversare senza montarci la testa, visto che siamo incapaci di star zitti.

È vero, siamo inesauribili.

Lo facciamo per non pensare.

Abbiamo delle attenuanti.

Lo facciamo per non sentire.

Abbiamo le nostre ragioni.

Tutte le voci morte.

Che fanno un rumore d’ali.

Di foglie.

Di sabbia.

Di foglie.

Parlano tutte nello stesso tempo.

Ciascuna per conto proprio.

Direi piuttosto che bisbigliano.

Che mormorano.

Che sussurrano.

Che mormorano.

Che cosa dicono?

Parlano della loro vita.

Non si accontentano di aver vissuto.

Bisogna anche che ne parlino.

Non si accontentano di esser morte.

Non basta.

Fanno un rumore come di piume.

Di foglie.

Di ceneri.

Di foglie.

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opera di Christiane Löhr

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DI’ QUALCOSA!

Sto cercando.

Di’ qualsiasi cosa!

Che facciamo adesso?

Aspettiamo Godot.

Già, è vero.

Com’è difficile!

Prova un po’ a cantare.

No, no. Non c’è da far altro che ricominciare.

Giusto, la cosa non mi sembra poi tanto difficile.

È solo la partenza che è difficile.

Possiamo partire da qualsiasi cosa.

Sì, ma bisogna decidersi.

Giusto.

Aiutami!

Sto cercando.

Quando si cerca, si sente.

È vero.

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