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In principio, almeno per me, fu Pina Bausch.
Café Müller, del 1978.
La celebre scena in cui, al suono della struggente aria When I Am Laid In Earth, tra sospensioni, allungamenti e sedie rovesciate, corse, reiterazioni e rotazioni, un corpo-teatro esile e ammaliante (di)mostrava, a me ventenne ignaro di tutto, cosa fosse il Teatro.
Un accadimento rigorosissimo e furioso, governato da una logica alta e altra rispetto alla quotidianità.
Un consistere di corpi (biologici e materici, sonori e luminosi) densissimi e al contempo leggeri, fugaci ma indimenticabili.
Un dispositivo, allora per me tanto incomprensibile quanto magnetico, che mi fece intuire che quest’Arte -quando si guadagna l’iniziale maiuscola- può divenire carnale e sacra: può permettere di affacciarsi verso un altrove.
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La medesima tensione trascendente -termine che qui uso nell’accezione etimologica dello scavalcare fisicamente un ostacolo- mi pare permeare il curioso accostamento che Pier Luigi Pizzi ha realizzato nell’ambito della Trilogia d’Autunno del Ravenna Festival 2024.
Ha incastonato l’umanissima, dolente carnalità del Dido and Aeneas di Henry Purcell in una composizione sacra del medesimo autore: la lode alla patrona della musica Hail! Bright Cecilia.
E ha strutturato un disegno registico che, secondo il consolidato meccanismo del teatro nel teatro, propone uno sviluppo diegetico nudo, a vista: «È dall’Ode composta per la giornata di celebrazione della patrona della musica che il lavoro prende le mosse» ha raccontato il Maestro Pizzi «Mi piace immaginarla intonata dai giovani allievi di una scuola di musica che, sempre per onorare la santa e con lei la potenza della musica, improvvisano all’interno dell’Ode stessa la rappresentazione dell’opera dedicata all’amore infelice della regina cartaginese e dell’eroe troiano… come non ricordare che il Dido fu scritto proprio per le giovani gentildonne di un convitto nel sobborgo londinese di Chelsea. Ecco, l’atmosfera è quella gioiosa di una scuola in un giorno di festa, in cui a prevalere è il piacere per il teatro inteso come gioco, come divertimento, in cui verità e finzione si intrecciano, e anche gli elementi magici e ogni artificio sono vissuti come componenti naturali del meccanismo ludico teatrale».
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L’AVVENTURA DEL LINGUAGGIO
Una tale prospettiva, va da sé, pone in primo piano l’avventura del linguaggio: non vi è alcuna sospensione dell’incredulità, nel patto che l’artista novantaquattrenne ha proposto all’entusiasta platea ravennate.
Non è per via naturalistica, né per ben architettata illusione, che si viene accompagnati per ottanta densi minuti.
Vestizioni a vista, ripetuti applausi del coro ai solisti, interazioni tra gli artisti in scena e quelli di Accademia Bizantina nello spazio dell’orchestra: questi e altri espedienti ricordano, senza posa, che si è di fronte a un dispositivo finzionale, a una macchina della rappresentazione pienamente teatrale.
Nella mia percezione una medesima dinamica era generata, seppur attraverso una costruzione affatto difforme, dal capolavoro di Bausch.
Ecco allora l’azzardo di queste note: provare a nominare alcune categorie -cinque, per l’esattezza- di possibili affinità tra Pina Bausch a Pier Luigi Pizzi.
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VISIONE TOTALE DELL’ARTE
Entrambi sono artisti “totali”, in grado di armonizzare molteplici linguaggi.
- Bausch ha trasformato la danza in un luogo in cui corpo, parola, musica e spazio scenico diventano parte di un’esperienza unitaria. Nel suo teatrodanza, il movimento non è mai decorativo, ma veicola una narrazione emotiva universale.
- Pier Luigi Pizzi, con il suo stile rigoroso e visionario, concepisce spettacoli come un insieme organico in cui scenografia, costumi e regia collaborano per costruire un’immersione completa.
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ESTETICA ESSENZIALE E SIMBOLICA
Sia Bausch che Pizzi costruiscono dispositivi che puntano all’essenzialità, ma con una forte carica simbolica.
- Bausch spogliava le sue opere di orpelli narrativi superflui, lasciando spazio a una cruda verità emotiva, spesso espressa attraverso ripetizioni e frammenti di movimenti che evocavano esperienze archetipiche.
- Pizzi, nel suo approccio alla scena, ha spesso scelto il minimalismo formale, costruendo spazi di straordinaria eleganza e astrazione. Le sue scenografie si basano su un uso calibrato di colori e geometrie che guidano lo sguardo dello spettatore verso l’essenza del dramma: il sibillino bianco e nero di Didone e Enea nel giorno di Santa Cecilia non fa eccezione.
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CENTRALITÀ DEL MITO E DEL DRAMMA
Entrambi hanno trovato nella dimensione archetipica una fonte inesauribile di ispirazione.
- Bausch esplorava il Mito nelle sue dimensioni emotive e psicologiche, trasformandolo in un prisma per indagare le relazioni umane. Quel materiale, nei suoi lavori, diventa accessibile: letteralmente contemporaneo.
- Pizzi ha restituito al Mito una purezza visiva e simbolica, in creazioni che dialogano con il passato pur rimanendo rilevanti e vive nel presente. E il dittico ravennate ne ha dato ulteriore, piena riprova.
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USO DELLO SPAZIO
Lo spazio scenico è centrale in entrambe le poetiche.
- Bausch lo trasforma in un elemento dinamico, che interagisce con i danzatori e contribuisce alla narrazione. I suoi set sono spesso realistici (giardini fioriti, sale da ballo, terreni coperti d’acqua, eccetera), ma diventano al contempo metafore emotive di una condizione esistenziale sempre in bilico tra fragilità e incanto.
- Pizzi, da architetto qual è, costruisce spazi che non solo ospitano l’azione ma la definiscono: sono drammaturgicamente attivi.
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TENSIONE TRA TRADIZIONE E CONTEMPORANEITÀ
Entrambi hanno saputo reinterpretare la tradizione in modo innovativo.
- Bausch non ha mai negato le radici nella danza classica, ma le ha trasfigurate, rendendole linguisticamente uno specchio dell’oggi.
- Pizzi, nel suo lavoro sull’opera lirica, ha rispettato il testo musicale e drammaturgico, ma lo ha riletto con un occhio moderno, valorizzando la potenza universale delle storie raccontate e della musica.
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CONCLUSIONE: UN DIALOGO (IM)POSSIBILE? UNA POSSIBILE EREDITÀ?
Se Pina Bausch e Pier Luigi Pizzi avessero collaborato, probabilmente avrebbero creato un’esperienza artistica totale.
L’incontro tra la poetica emotiva di Bausch e la raffinatezza visiva di Pizzi, oggi, porterebbe forse alla definizione di un linguaggio scenico antico e al contempo radicalmente nuovo che integra il corpo come strumento di narrazione (il movimento non sarebbe solo danza, ma un’espressione linguistica che traduce l’invisibile) e la scenografia come spazio simbolico e vissuto (ogni elemento sarebbe parte integrante della narrazione, costruendo ambienti che interagiscono con i performer e con il pubblico).
Chiudo queste strambe note con una domanda aperta, tenendo in animo il miraggio di arte come esperienza olistica: quale eredità potrebbe generare, oggi e domani, questo incontro impossibile?
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