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In principio fu Giorgio Gaber.
Il suo teatro canzone.
Principio per me, beninteso: antecedenti ve ne sono a bizzeffe, ovviamente.
Uno su mille: i menestrelli medioevali, che intrecciavano suono e racconto, canto e pantomima, nei lunghi secoli in cui l’oscurantismo cattolico aveva forzato la chiusura dei teatri e si trovarono costretti, per sbarcare il lunario, a far proliferare i possibili (ag)ganci con i più diversi pubblici. Moltiplicazione di linguaggi parallela alla moltiplicazione dei luoghi e degli incontri.
Gli esempi potrebbero a lungo continuare, ma questa breve nota non ha lo scopo di esaurire, ovviamente, una Storia millenaria: si scrive con semplicità a partire da ciò che si è incontrato.
E quel che si è incontrato, in questo caso, è Fino alle stelle! di e con Agnese Fallongo e Tiziano Caputo, al Teatro Piccolo di Forlì lo scorso 14 novembre nell’ambito della Stagione curata da Accademia Perduta / Romagna Teatri.
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IN PRINCIPIO
In principio fu Giorgio Gaber, appunto: quel suo passare senza stacchi dal monologo alla canzone, dall’irresistibile ilarità all’altrettanto inarrestabile malinconia.
Quella chitarra e quel corpo-teatro (per usare una perfetta espressione di Jean-Luc Nancy che avrei incontrato solo molti anni dopo) mi lasciarono, nei miei vent’anni ignari di tutto, pienamente travolto, commosso, innamorato.
Questa Scalata in musica lungo lo Stivale evidenzia, in una costruzione a quadri che come un mosaico compone l’itinerario annunciato dal sottotitolo (insieme a una sagoma, appesa al fondale, del Belpaese che calza uno stivale, a materializzare l’idea dell’andare) una pratica di teatro musicale che vorrei ora brevissimamente declinare in tre direzioni.
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UNO: IN TUTTA EVIDENZA
Fallongo e Caputo puntellano la loro performance attorale di molti brani musicali e canzoni, attinti da diverse tradizioni popolari, a concepire un Canzoniere che dà corpo, suoni e voci alla certamente non inusitata metafora del viaggio.
In alcuni passaggi l’alternanza recitazione / canto è più netta e larga, in altri più stretta, a suggerire l’antica pratica dei e delle cantastorie o di certa Opera Buffa (ad esempio quando i due battibeccano a suon di canzoni).
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DUE: ATTRICE MUSICALE, ATTORE MUSICALE
Fallongo e Caputo sono in tutta evidenza un affiatatissimo duo, ma presentano anche ben definite peculiarità sceniche (come ho provato ad accennare nelle note a proposito del loro precedente spettacolo Letizia va alla guerra, visto nello stesso teatro nel dicembre scorso): attitudini complementari, che in Fino alle stelle! paiono manifestarsi con ulteriore chiarezza, mettendo in luce un aspetto forse centrale del loro artigianato.
La loro presenza scenica pare composta secondo una logica e una sintassi di tipo musicale: passaggi testuali sincopati giustapposti ad altri legati, pause esattamente misurate, attentissimo controllo della dinamica sia nell’emissione vocale ma anche e soprattutto nel tono muscolare e nell’interazione fisica tra le Figure, duetti e assoli, bordoni e abbellimenti, rubati e acciaccature.
Dal punto di vista ritmico, inoltre, oltre ai precisissimi scambi tra loro, a dar luogo a repentini cambi di atmosfera (una delle caratteristiche più evidenti della loro pratica scenica), vi è una millimetrica esattezza nel continuo rompere e ri-edificare la quarta parete, coinvolgendo senza posa la platea in questa partitura di inclusione e frontalità, tensioni e rilasci.
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TRE: MISTERIOSA FORMA DEL TEMPO
Prendo a prestito un celebre verso di Jorge Luis Borges, là dove definisce la musica «misteriosa forma del tempo», per suggerire un ultimo aspetto di questo spettacolo: il suo malleare la materia del tempo, sia quello storico evocato dal racconto che quello dello spettacolo esperito dalla platea, fino a invertirne la percezione.
Il viaggio dei due protagonisti, idealmente avvenuto forse un secolo fa, viene esperito come affatto presente, mentre il tempo della ricezione si allarga, e certe piccole scene (una su tutte: il duetto amoroso di Fallongo con un impermeabile appeso a un attaccapanni, vera miniatura di visionaria maestria) si dilatano e permangono vivissime nella memoria anche a distanza di giorni, forzando la temporalità insita in ogni arte della scena.
Bisogna saperlo fare: chapeau.
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