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Vista cinicamente la vita non è che un ammasso di tempo al quale, per convenzioni sociali, diamo delle scadenze, degli step, degli scarti, per ammorbidire meglio questo gioco dell’Oca nel quale prima abbiamo fretta di bruciare le tappe e poi vorremmo che gli anni, i mesi, le ore e i minuti si fermassero, si cristallizzassero in una impossibile eternità. Titolo quasi ungarettiano quello di Alessio Genchi e Innocenzo Capriuoli che con quattro parole folgorano l’esistenza, riducendola a poche azioni che poi, in definitiva, sono quelle che danno senso al tutto: la risata come i giorni felici (non beckettiani), le lacrime come i piccoli e grandi traumi che la vita ci pone davanti e che ci ricordiamo come scoglio, come ostacolo ma anche come rinascita, l’eccitazione che è il motore e il fuoco del piacere, del sesso, della scoperta di sé e dell’altro, le relazioni umane, gli scambi di umori che ci fanno sobbalzare il cuore, che ci fanno penare e sentire al settimo cielo come sprofondare sotto la Fossa delle Marianne. Ecco la fotografia, Ridi, Piangi, Ti ecciti (prod. Teatri di Vita; visto al Teatro Goldoni di Firenze), come a dire: Sta tutto qua? Sì, al netto di yoga, karma, reincarnazioni, religioni e soprattutto di quello che potrebbe esserci in una possibile, eventuale vita nell’Aldilà, sì, sta tutto qua questi ottant’anni (se va tutto bene tra incidenti di percorso e malattie) che a volte sembrano non passare mai e in altri momenti sfuggono dalle dita lasciandoci l’amaro in bocca per quello che non abbiamo fatto e per quello che non abbiamo detto. Ormai gli anni sulla nostra carta d’identità li misuriamo con le cose che abbiamo fatto: le relazioni, lo stipendio, il lavoro, i fidanzati, i viaggi, come se un accumulo più grande e più corposo, paragonandolo rispetto agli altri nostri simili e vicini, identificasse una vita più piena e vissuta meglio. E’ la foga del consumismo che tutto vuole mordere ma che non ha tempo di assaporare, è lo shock e la ferita dell’esperienza che ci porta a fare cose in serie per non pensare alle cose veramente serie. Dopotutto anche Calvino diceva che la vita degli uomini era quella storia di sangue e corpi nudi.
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Questo RPTE ci ha ricordato da una parte un Benjamin Button al contrario, ovvero progressivo, dall’altro Storia di un corpo di Daniel Pennac con la scansione, condivisibile e plausibile, dello scorrere inesorabile, foscoliano, delle rughe, della crescita come del deperimento, e ad ogni sosta e fermata di questa Via Crucis un accadimento che cambia le prospettive, che fa mutare la direzione, fa prendere nuove strade. Come a Monopoly gli imprevisti e le opportunità. Ed ogni possibilità sul momento ci sembra un avanzamento, un miglioramento perché nel nostro sistema capitalistico lo stare fermi è già una sconfitta mentre ogni piccola rivoluzione per noi è fonte di una stucchevole, banale, frivola esaltazione perché pensiamo sempre che si apriranno chissà quali portoni, illudendoci, esorcizzando così la paura dello stallo. Che se non siamo presi dal fare mille azioni, se non ci sentiamo nel vortice allora ci resta troppo tempo libero per noi stessi che dovremmo dedicare non alle cose da fare ma alle domande a cui pensare. Molto meglio avere piccoli, grandi obbiettivi (spesso imposti socialmente e nei quali non crediamo ma che perpetriamo con poca convinzione), piccole vittorie, che una volta ottenute si sgonfiano di senso, grandi fallimenti che ci ingrigiscono, ci rattristano, ci deludono. Anche le disfatte e le sconfitte fanno parte di questa catena di montaggio perché ogni tanto l’uomo moderno contemporaneo occidentale ha il disperato bisogno di cadere, di toccare il fondo: è il suo modo per voltare pagina e riemergere, nutrirsi di nuove energie chiudendo vecchi capitoli e chiamando il tutto rinascita. L’uomo per sentirsi nuovo ha la necessità di chiudere parentesi con la nuova allucinazione e abbaglio che domani sarà tutto diverso, che sarà tutto migliore. La vita è una cosa spiacevole e io mi sono proposto di passare la mia a rifletterci sopra, filosofeggiava Schopenhauer.
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Genchi e Capriuoli, con una recitazione frontale e sfrontata (ci hanno ricordato Gli Omini come i Sotterraneo, ma anche tanti altri giovani gruppi di qualche stagione fa), hanno energia da vendere, carisma, forza, freschezza e cazzimma, oltre a una grande amalgama, unione, chimica ed empatia, pronti sul palco a non perdere il ritmo e il rap, base fondamentale di questo spettacolo, agili in platea a confrontarsi con il pubblico, tenerlo, lasciandosi trasportare con ironia e tenacia. Mentre gli anni scorrono, cadenzati, è impossibile non ritrovarsi nelle loro parole, non immedesimarci nelle nostre tenerezze, nei nostri errori, nelle nostre stupide credenze perché a vent’anni pensiamo di aver capito il mondo e a trenta ci accorgiamo di come eravamo ingenui dieci anni prima, e a quaranta sorridiamo dei nostri trenta e a cinquanta ci diciamo che dieci anni prima potevamo vivercela con più tranquillità, e a sessanta che il meglio forse è già passato e a settanta che tutto era o poteva essere vissuto in maniera più semplice e facile. La distinzione è vedere il naufragio dalla riva, di leopardiana memoria, o stare con la propria zattera al centro nell’occhio dell’uragano. Quando dopo, a posteriori, sai che ce l’hai fatta, che l’hai scampata, anche le esperienze più brutte diventano motivo di orgoglio e felicità proprio perché passate, affrontate e vinte, quando invece le stai vivendo, o peggio subendo, non hai la percezione che quel drammatico e tremendo e tragico attimo possa mai finire e concludersi. Ridi, piangi, ti ecciti è un gioiellino scenico scoppiettante e una bussola e caleidoscopio che ci indica, in modo realistico e nazional-popolare, dove stiamo andando, che cosa abbiamo vissuto e che, soprattutto, non siamo quegli esseri speciali e unici che abbiamo creduto di essere guardandoci allo specchio, ma che facciamo, tutti, chi prima chi poi, le stesse cose con le stesse modalità, dal lavoro ai figli, dal matrimonio al divorzio, pensando pure di essere originali. Purtroppo siamo piatti e monotoni e la vita è un soffio e un respiro che vola via e gli anni saranno sempre pochi. Il trucco sta nel non contarli ma di cercare di stare bene nella complicata guerriglia di ogni giorno. Il nostro nemico più grande è la noia non la morte. Il punto non è il verbo avere ma il verbo essere. Vivi ora ciò che altri sognano di vivere nel futuro, scriveva Paulo Coelho.
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