La visione di una melodia. Conversazione con Andrea Cramarossa a partire da Borges

0
123

.

Ha appena inaugurato alla Casa delle Culture di Bari la mostra BORGES – Ipotesi foto-grafica sulle geografie del corpo (concept Andrea Cramarossa, foto Gennaro Gargiulo, elaborazione grafica Federico Gobbi, curatela Loredana Cacucciolo). Il cortometraggio Borges, da cui è scaturita, nei mesi scorsi ha ricevuto decine di premi in Festival internazionali. Attualmente è anche finalista al The Next Generation short film festival di Bari, nella sezione Film d’artista. Le opere finaliste saranno proiettate a Bari dal 16 al 18 dicembre.

.

Come definiresti quest’opera e per quali motivi, secondo te, sta raccogliendo così tanto consenso?

Definendola secondo un genere, sarebbe un cortometraggio docu-sperimentale.

Invece, per me e come spesso accade con l’Arte e i fenomeni estetici, è uno dei tanti beni che hanno il potere di mettere in relazione l’anima più superficiale della nostra esistenza umana con quella più profonda; dunque è, anche e principalmente, un bene extra terreno ed extra quotidiano.

Per quanto riguarda il suo successo mondiale, no, non so darmi alcuna spiegazione razionale, posso solo provare molta gratitudine.

.

Il tuo lavoro da sempre eccede il teatro. «Il mio modo di fare teatro è il fare del pittore», mi dicesti qualche anno fa in una intervista (QUI) che realizzammo in occasione della nascita dell’archivio Andrea Cramarossa – Teatro delle Bambole presso la prestigiosa Fondazione Morra – Istituto di Scienze delle Comunicazioni Visive di Napoli. In che modo questa nuova creazione allarga la tua ricerca linguistica e quali principi, invece, conferma?

È una lente che riflette, deforma, rispecchia fedelmente e, infine, risucchia ogni cosa dentro di sé, questa specie di fagocitazione delle immagini, delle sensazioni e delle vibrazioni sonore che sono il mondo intero e che alberga dentro di me.

È da essa e con essa che rendo plausibile la possibilità del creare, coerente con la pratica performativa che da sempre invade il mio lasciarmi agire dall’arte.

Così, la fotografia, ha stimolato in me una necessità, come dire?, più letteraria, più narrata ma nella fissità del rapporto 1 a 1 a cui ti sottopone la visione statica di una foto che invita alla contemplazione.

Avevo bisogno di narrare diversamente le tracce emozionali già espresse nel cortometraggio; si è trattato di un bisogno simile al desiderio di voler “collezionare” o “catalogare” le immagini in impressioni paesaggistiche accentuando i concetti di “estraneità” e di “straniero”, sottesi nel cortometraggio e non marcatamente espressi.

.

.

Nel delicato e sempre mobile equilibrio tra intelligibilità di un contenuto (soprattutto se con una matrice civile e sociale) e fedeltà alla stratificata complessità del proprio universo estetico dove si colloca, questa esposizione?

Credo si possa collocare sempre nella dimensione diaristica o da album fotografico, una sorta di storiografia delle istanze migratorie, dello spostamento, del nomadismo.

L’attualità ci pone di fronte a molte questioni lasciate in sospeso per troppo tempo: prima o poi, esse, tornano alla luce per interrogarci enormemente.

È necessario poter porre un freno o un limite al degrado immenso che sta devastando la nostra umanità, intendo a livello interiore, principalmente, di pensiero, di percezione delle cose, della gravità degli accadimenti.

La sofferenza non viene più letta, decriptata dalla nebbia del nostro ego, e tutto il dolore passa come se non fosse mai esistito.

Non ho mai pensato che l’arte esista per allievarci dalle nostre “sofferenze” quotidiane ma, al contrario, che sia essa il modo migliore per andare in crisi.

L’esposizione, dunque, si pone esattamente al centro di questa crisi, è l’ombra che emerge dal taglio, dalla ferita, è il solco tracciato dalle parole del viaggio, quell’insieme di segni, direi quella “cosmogonia” di segni, che di-segna tutto il nostro corpo e che tendiamo a nascondere.

.

Frammentazione dei paesaggi, dei corpi, come impossibilità di significare pienamente l’Altro da sé. È così?

Più che altro è una visione minuziosa del “nascosto”.

Nella domanda che possiamo porre al nostro esser-ci nel mondo, noi troviamo un “chiesto” (come direbbe Heidegger) che, in questo caso, ci spiazza, toglie energie alla riposta, al fiato, lo rende un alito appena percettibile, inudibile, molto intimo, molto segreto, quasi misterioso.

D’altro canto, il cortometraggio si apre proprio con una domanda: “Quanto tempo può resistere un uomo sott’acqua senza respirare?”.

La risposta attiene alle creature degli abissi; esse parlano con movimento poetico, quello dell’acqua, la melodia più profonda, quella della nostra anima più profonda, come a voler cantare una nenia d’addio a chi non ha potuto ricevere una sepoltura nel cuore della terra.

E l’abisso è, anche, quella “terra di mezzo” dove il viaggiatore perlustra il proprio essere, cerca la volontà per determinarlo, si oppone, in realtà, alla frammentazione.

Questa ha una sua qualità e, in base a questa qualità, noi possiamo osservare una frammentazione che è totalità, integrità, unità: è il caso di Borges, appunto, un caso certamente “realistico” e certamente “magico”.

.

.

Il cortometraggio Borges inizia con una esplicita, reiterata esortazione al guardare. A cosa è auspicabile che si presti attenzione, visitando la mostra?

Ancor di più oggi, l’arte contemporanea, dovrebbe porre interrogativi chiari, netti, alla mente dello spettatore, porlo di fronte all’arte stessa ma al di fuori del rumore quotidiano, farlo entrare nell’agito, nelle meccaniche della percezione per trovare un senso proprio alle cose dell’esistenza.

Ecco, direi che auspico la visione di una melodia.

 .

E una volta usciti?

Il paesaggio.

Certamente credo che il paesaggio urbano sia, oggi, sempre più in trasformazione, ma il suo cambiamento è un cambiamento, sì, dei segni (le persone – gli oggetti – che abitano i luoghi) ma anche un cambiamento formale.

A questo cambiamento mi riferisco soprattutto quando parlo di paesaggio.

Sono le persone a darne la tinta, il tratto saliente, sono le persone ed il loro andare a determinare la città.

Spero che usciti dalla visione della mostra si possa guardare il paesaggio circostante con altri occhi, per una possibile riscoperta di una interiorità, quella sì, spesso frammentata e da ricomporre.

.

La mostra sarà visitabile fino al 28 dicembre, tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 20. La Casa delle Culture si trova in Via Barisano da Trani, 15 (ingresso da Traversa di Via G. Pugliese) a Bari. Per informazioni: info@teatrodellebambole.it, 347 3003359, https://www.teatrodellebambole.it/. 

.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.