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Non sarà uno spettacolo teatrale nella sua accezione più stringente e consueta.
Ci tengono a precisare che “sarà un’esperienza”.
Dal punto di vista impattante sicuramente Le Amarezze di Koltes, per la regia di Andrea Adriatico (prod. Teatri di Vita), regala quel quid, quel brivido di andare incontro all’ignoto che la platea classica difficilmente dona ancora, ormai assuefatti alla morbidezza, a quella comfort zone vellutata e ovattante.
Qui c’è un ritorno agli anni ’70 (ci sono venute in mente alcune prove dei Living Theatre), alla performance (senza però osare) che coinvolge gli spettatori che vengono immessi in un dispositivo diverso, nuovo, strano.
Secondini-kapò ci urlano di entrare a piccoli gruppi, ci contano, ci dicono dove dirigerci, gridano il posto preciso dove dobbiamo sedere.
Nessuna possibilità di controbattere, di interagire, di rispondere.
Quaranta anime alla volta (1h 30′) stanno attorno ad un recinto che pare quello di Guantanamo, una decina di metri per quattro, un playground d’asfalto da basket americano dove all’interno otto attori, in tuta da detenuti, aspettano regole, decisioni e movimenti ordinati da altri quattro gendarmi che, con modi bruschi, sgarbati, violenti, stanno lateralmente a questa stia per polli con un microfono calante dall’alto, come quelli che scendono sul ring alla presentazione degli sfidanti.
Il palcoscenico è la gabbia (ci ha ricordato il Cortile del Maschio all’interno del Carcere di Volterra), l’ostilità è l’elettricità che affiora, pervade, percorre febbrile questo campo di battaglia, questo Campo di Marte dove non c’è sangue ma è palpabile e palese l’astio viscerale, la guerriglia tra i contendenti (forse concorrenti di un Grande Fratello fratricida o di uno Squid Game trasmesso online), il mors tua vita mea costante, quell’odi et amo tra il dentro e il fuori, quella rabbia e allo stesso tempo quella ricerca di comprensione e accoglienza tra chi subisce, le vittime all’interno di questo Garage Olimpo argentino, e i boia all’esterno della recinzione.
Adriatico sperimenta e ricerca nuovi linguaggi da trent’anni insieme ai suoi TdV e la loro esperienza è stata in qualche modo raccolta e raccontata nel volume Bologna 900 e duemila. Teatri di Vita nella città (ed. Pendragon) a cura di Stefano Casi.
Da fuori, come arbitri sul quadrato, giungono i dettami e gli attori vengono chiamati all’azione (senza improvvisazione): ballano se gli dicono di ballare, gracchiano che glielo impongono, piangono se glielo chiedono energicamente ed eseguono come burattini senza fili ossequiosi. Si spogliano, si prendono per il collo, si spingono in un’atmosfera inquietante e allarmante proprio perché strisciante, opaca, nebulosa.
Un attore, che incidentalmente viene dalla Palestina, parla in arabo e la mente non può non andare verso le immagini che rimbalzano da Gaza o dal Libano.
Al centro un cadavere sta.
Unico oggetto-feticcio all’interno dell’arena di questi gladiatori già sconfitti (Morituri te salutant) una grande culla che non genera nessun vagito, nessuna speranza, nessuna nuova alba di futuro, un lettino da dondolare ma arido, secco, spento, senza luce.
Siamo dentro e fuori il teatro, come sentir leggere le didascalie registiche, come se fosse una prova aperta ripropongono più volte in loop la stessa scena spostandosi da una parte all’altra del rettangolo delimitato dove i performer corrono come sul diamante di un campo da baseball, come le palle su un campo di bocce, come le stones sul ghiaccio del curling.
Sono quadri, capitoli, stralci, appunti e potremmo azzardare e forzare un parallelo con il Woyzeck di Buchner tra la disfatta e il fallimento endemico e quell’ira che affligge tutti questi personaggi-topos che si affollano dentro lo steccato, catapultati in quest’agorà asettica, non riuscendo ad essere visibili come individui ma rimanendo massa, nell’ombra, bolo insalvabile.
Il giovane uomo picchia la fidanzata, il padre picchia i figli, il padre picchia la madre, i figli picchiano il padre in questo tutti contro tutti, in questa Via Crucis, in questo calvario, in questo lager che non farà sconti, che non li perdonerà (se mai hanno commesso qualche colpa per essere stati privati della libertà), che non li redimerà né li libererà dal loro stato represso, recluso, prostrato.
Il risultato è un qualcosa di crudele e sensuale, freddo ed erotico, certamente un canto sfibrato, prosciugato e svuotato antibellico certificato e sottolineato dai droni (e qui entra in gioco la guerra d’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina) che svolazzano con il loro sibilo di gigantesche zanzare. Un volo che impatta sulle barriere schiantandosi e agonizzando a terra.
Come una colomba della Pace impallinata da un cacciatore.
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