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Diciamolo subito: siamo dalle parti del capolavoro.
Per alcuni precisi motivi, che se non ho certo la pretesa di esaurire, proverò almeno a nominare.
Parlo di Autoritratto, il nuovo spettacolo di e con Davide Enia, visto al Teatro Piccolo di Forlì martedì 3 dicembre.
Per dovere e amor di sintesi, circoscrivo a cinque i motivi di apprezzamento.
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PRIMO: IL PRIMA
Prima dello spettacolo a Forlì, nell’ambito del progetto Teatro e Gusto, al Circolo Ricreativo “Casa del Lavoratore” di Bussecchio adiacente al Teatro Piccolo Enia ha dialogato con Ruggero Sintoni, co-direttore artistico di Accademia Perduta/Romagna Teatri (che co-produce lo spettacolo insieme a CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, e Spoleto Festival dei Due Mondi).
Una manciata di minuti in cui ha raccontato alcune sue procedure creative: tra esperienza di vita e aneddoti, tra mestiere artigiano del teatro e studio, tra nudità dello spazio scenico e iper-esposizione dell’Io narrante, tra la scelta di raccontare storie che vorrebbe per primo ascoltare e l’usare il proprio corpo-voce per permettere ad alcune assenze di affiorare.
Tutto questo con una passione e una esattezza commoventi.
Uso ora questo termine nel senso etimologico del farci muovere assieme: assieme affacciarsi su quella bottega che sta prima e attorno alle creazioni e che non sempre si può pienamente intuire.
Da molti anni mi capita spesso di ascoltare gli artisti e le artiste raccontare il proprio lavoro: troppo spesso in maniera vaga, fumosa, massimamente imprecisa o unicamente sentimentale o egotica.
Questa capacità di creare discorso -dunque mondo- in modo al contempo rovente ed esattissimo, è cosa preziosa, rara: fa sì che fatti privati divengano all’istante patrimonio comune.
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SECONDO: PRECISE PAROLE
Precise parole, ancora, in una drammaturgia che intreccia la propria storia (l’autoritratto del titolo) e la Storia: la mafia, Palermo, il primo morto ammazzato visto a otto anni rientrando da scuola.
Per inciso: il titolo di queste mie brevi note, bisogna nominare le cose, rimanda a quanto diceva a Enia-liceale il suo professore di religione, don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia nel giorno del suo compleanno.
Ancora: italiano e dialetto.
Frasi brevi, nette.
Poche subordinate, parole-cose.
E ritmo, ritmo, ritmo, in una scrittura che si nutre di scena e di vita.
E il ritmo è tutto: forse nella vita, certo in teatro.
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TERZO: SAPER FARE
Enia è un artista poliedrico.
Scrive e dirige.
Recita, canta e cunta.
Fa tutto con smisurata forza e forte misura, che è un equilibrio mica da poco.
Modula la voce con grande espressività, passando dal sussurro al grido con una fluidità che tiene il pubblico costantemente in tensione emotiva.
L’andamento della sua narrazione è tipico del cunto: accelerazioni, rallentamenti, sincopi e pause drammatiche che sospendono il respiro. Una gestione del tempo cruciale per creare pathos e intensità.
Senza bisogno di costumi o cambi di scena, Enia fa vivere nello spazio vuoto del palco una moltitudine di personaggi e ambienti. Attraverso la voce e i gesti, evoca interi paesaggi e atmosfere, portando lo spettatore in un viaggio al contempo di senso e sensoriale.
A noi in platea piace, con buona pace di molte stramberie avanguardistiche, che chi sta sul palco manifesti una téchne a noi non data, che possegga un saper fare che non è nostro.
Che ci faccia al contempo pensare ed emozionare.
Questo, Enia, lo sa fare bene.
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QUARTO: IL GRAN TEATRO DEL MONDO
Con lungimiranza, il pur multi-talentuoso Enia si avvale di molte collaborazioni di pregio: nutre la sua opera in molti modi.
In scena ci sono musiche dal vivo e canto di Giulio Barocchieri: insieme creano mondi.
Questi mondi sono materia, non solo astrazione, grazie al suono di Francesco Vitaliti, che ci consegna questo racconto con la datità di un fatto.
Le luci, di Paolo Casati, disegnano nel nudo spazio scenico alcune (de)centrate geometrie che contribuiscono concretamente a moltiplicare, parallelamente alla drammaturgia, i punti di vista su quanto in scena è messo in vita.
Prima (uno spettacolo come questo necessita di gran lavorio prima, per esistere) certo molti passi, che non conosco.
Uno di questi lo ha raccontato in una bella intervista a Federica Angelini pubblicata in apertura della rivista Palcoscenico 2024-25: «Io mi sono avvalso della collaborazione di tre funzionari della Dia, dipartimento antimafia, che mi hanno fatto una lezione di semiotica, mi hanno aiutato a leggere i segni della mia città e storicizzare come loro hanno combattuto la mafia».
Sulla città come testo ci sarebbe moltissimo da dire – una fascinosa quanto smisurata parentesi, che non apro.
Ai fini del presente piccolo discorso pare sufficiente accennare a questo allargamento per nutrire di mondo il proprio teatro: attitudine sideralmente distante dall’immaginario romantico dell’artista che nel chiuso della propria torre combatte con i propri fantasmi per addivenire alla dolorosa quanto necessaria (che aggettivo consumato, tra teatranti e affini!) creazione dell’opera.
È grande teatro del mondo, questo Autoritratto.
È, etimologicamente, teatro: luogo di sguardi e visioni.
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QUINTO: L’ARTE DELLA COMMOZIONE
I temi personali e universali di Autoritratto, che toccano la famiglia, la perdita e la memoria, vengono affrontati con una plausibilità disarmante.
Lo spettatore si sente parte di un’esperienza collettiva: pur attingendo a una modalità di narrazione arcaica, Enia riesce a fondere la tradizione del cunto con una forma di teatro contemporaneo che abbatte la quarta parete emotiva.
Autoritratto riprende e rivitalizza la struttura della tragedia attica, con tanto di prologo ed esodo: parla a qualcosa di antico, in noi.
Il tema è forte, il racconto avvolge, alcuni canti in una lingua antica e carnosa (tra cui il Miserere di Sessa Aurunca inciso da Giovanna Marini e, in chiusura, lo struggente Cumu è sula la strata dei Fratelli Mancuso) muovono e, soprattutto, approssimano al mistero.
Dall’Antica Grecia in poi, questa è una delle funzioni dell’Arte, degli artisti: mediare tra noi persone comuni e ciò che non conosciamo, che solo a fatica intuiamo, ma che generosamente ci nutre.
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