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Io non ho la televisione: mai avuta.
Non leggo quasi mai i giornali, solo libri, su carta.
Ascolto le notizie a Radio3.
Mi occupo di un settore molto marginale: teatro, danza e arti visive contemporanee.
Nel tempo libero la cosa che più mi nutre è camminare per spiagge, colline e montagne, con la mia cagnolina Emma e, ogni tanto, con poche anime care.
Ho consumi ridotti all’osso, il più possibile acquisto il cibo in piccole aziende agricole biologiche, o nelle botteghe del commercio equo e solidale.
Sono probabilmente quel che si direbbe uno un po’ fuori dal mondo.
Non che sia un vanto, ma è così.
Cosa potrebbe dunque dirmi, in teoria, un saggio come La parola immaginata di Annamaria Testa, di cui è da poco uscita per il Saggiatore una nuova edizione?
Nulla, si potrebbe pensare.
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E INVECE
Invece parla, chiaro e forte: al di là del mestiere, al di là delle abitudini di vita.
E ripubblicare oggi questa Teoria, tecnica e pratica del lavoro di copywriter mi pare una piccola rivoluzione.
Uso non senza tremore questo termine intriso di ideologia provando a declinarlo, come fa questo illuminante saggio, in direzione affatto concreta.
Penso a How to do things with Words (Come fare cose con le parole), la celebre raccolta di lezioni tenute da John Langshaw Austin all’Università di Harvard nel 1955, pubblicate postume nel 1962: «dire qualcosa è fare qualcosa» ci spiegava, ragionando sulla funzione performativa del linguaggio.
Performativo: questo aggettivo mi rimanda a un ambito che mi è più consueto.
Patrice Pavis nel suo Dizionario del teatro, spiegava: «Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro».
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LINGUAGGIO PERFORMATIVO
Linguaggio performativo: in quanto tale, nudo e crudo, che significa in primis come significante, traduco con una piccola capriola.
È in questo senso che la monumentale sintesi di Testa può riguardare tuttə e ciascunə.
Sia come utile strumento per aiutarci a meglio leggere o auspicabilmente decodificare i messaggi (commerciali, politici, …) che inevitabilmente in mille forme ci raggiungono, quali siano le abitudini e le attitudini personali.
E in un tempo in cui i grandi poteri economici regolano il mondo e, come si suol dire, andare a far la spesa è un po’ come andare a votare, questa possibilità di consumare e di esercitare la propria cittadinanza in maniera più consapevole è preziosa, rara.
Sia, allargando, come possibilità di una (piccola o grande) rivoluzione nella nostra relazione con il reale, avendo ben presente che il modo in cui noi guardiamo e nominiamo le cose le cambia, non solo le accoglie o commenta.
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LUNGI DA ME
La parola immaginata è stato scritto quasi quarant’anni fa, tra il 1987 e il 1988, integrato tra il 1999 e il 2000, la sua autrice nell’anno che sta finendo compie cinquant’anni di professione, ed è considerata una dei più brillanti talenti creativi italiani.
Lungi da me fare ora il riassunto di questo saggio, da moltissimi anni oggetto di studio anche nelle università, o di una biografia professionale puntellata di enormi successi: non ho alcuna autorevolezza, per farlo, né sarebbe di alcun interesse.
Quel che provo semplicemente a fare, in queste note che più che una recensione sono un semplice atto di gratitudine, è estrarre alcuni frammenti da un discorso ben più ampio, stratificato e coeso.
Nelle righe introduttive, aggiunte in questa nuova edizione, Testa annuncia quel che poi puntualmente accadrà nelle quasi trecento pagine del saggio: parlare «in modo accurato e affettuoso di un mestiere, quello del copywriter».
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TRA TECNICA E UMANESIMO
Una sapienza sempre in bilico tra tecnica e umanesimo, è quella che esattamente viene nominata: ed è proprio questa esattezza che, come nell’arte, allarga il discorso, quale esso sia, da personale a generale, da individuale a universale.
La parola immaginata racconta e analizza il «valore percepito» e come normalmente si percepisce visivamente una pagina pubblicitaria, gli indissolubili e stratificati rapporti tra parole e immagini e il «sistema di attese che chiede solo di essere confermato», la storia della pubblicità e l’esatta terminologia associata a quel mondo, le figure retoriche e la punteggiatura, le citazioni e gli accenti, le slice of life e le situazioni irreali, l’overstatement e l’ironia, le storie e la non storia, i testimonial e gli esperti. E tanto, tanto altro.
Detto altrimenti: mette in luce i meccanismi che solleticano la nostra attenzione e come si tiene viva la memoria, cosa ci fa affezionare e cosa, invece, ci allontana da un oggetto di comunicazione.
Che si stia da una parte o dall’altra di una pagina (o di uno schermo), è un preciso, puntuale esercizio di attenzione, di nominazione.
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FARCI MUOVERE
Tutto questo, con una quantità di esempi e buoni consigli e con una lieve, salvifica ironia.
E un tono affettuoso che, come ci insegna la filosofia della musica, rimanda alla concreta, finanche materica possibilità di un linguaggio di muovere gli affetti.
Dunque di farci muovere: «Come fare cose con le parole» diceva, appunto Austin.
Bisogna volerlo fare, bisogna saperlo fare.
Chapeau.
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